Il dibattito sull’utilizzo delle risorse congelate è diviso in due fazioni. Da un lato ci sono coloro che sostengono che le ricadute politiche, giuridiche ed economiche della confisca siano maggiori dei benefici che se ne potrebbero trarre. Dall’altro quelli che ritengono corretta la confisca perché la ricostruzione dell’Ucraina dovrebbe gravare soprattutto sulle casse dello Stato che l’ha invasa. Esiste, forse, una terza via, con le risorse congelate come garanzia per prestiti a favore della ricostruzione. L’analisi di Francesco Giumelli, professore di Relazioni internazionali presso l’Università di Groningen
Il costo della ricostruzione dell’Ucraina è altissimo: stime recenti del Rapid damage and needs assessment indicano che saranno necessari almeno 506 miliardi di euro nei prossimi dieci anni, a cui si sommano le spese urgenti per la difesa e l’assistenza umanitaria. Dall’imposizione delle prime sanzioni di marzo 2022, circa 300 miliardi di euro di asset sovrani russi sono rimasti congelati in diverse giurisdizioni europee, di cui 210 miliardi custoditi all’interno dell’Unione europea (principalmente presso Euroclear in Belgio). Queste risorse, pur esistendo on paper, non vengono impiegate né a sostegno di Kyiv né per la futura ricostruzione, e molti si domandano se non esistano modalità per renderle disponibili. La risposta, tuttavia, è tutt’altro che semplice.
I fondi sono attualmente bloccati in virtù delle misure restrittive dell’Ue: il congelamento ne sospende l’utilizzo e ne vieta il trasferimento, ma lascia intatto il diritto di proprietà. La confisca, al contrario, implicherebbe la perdita definitiva del bene da parte dei legittimi titolari – siano essi privati o la Banca centrale russa – e il trasferimento delle somme a un ente terzo, per esempio un fondo fiduciario dedicato alla ricostruzione in Ucraina. Sul piano politico, la scelta tra congelamento e confisca sarebbe di competenza dell’Unione europea in quanto decisione strategica e puramente di natura politica. Tuttavia, sul piano giuridico gli Stati membri sono chiamati a intervenire in virtù delle rispettive legislazioni nazionali sia per quanto riguarda le sanzioni con decisioni attuative, sia per quanto riguarda l’eventuale confisca. Inoltre, molte normative nazionali non prevedono la possibilità di procedere alla confisca di risorse congelate senza un regolare procedimento giudiziario, come può avvenire in casi di criminalità organizzata o riciclaggio con sentenza definitiva. Le sanzioni, invece, sono strumenti di politica estera di natura eminentemente politica e amministrativa, che sospendono temporaneamente la titolarità ma non contemplano esplicitamente il passaggio alla confisca.
Non sorprende, dunque, che Paesi come il Belgio e alcune istituzioni come la Banca centrale europea abbiano manifestato riserve: senza un quadro normativo chiaro si temono contenziosi legali e possibili ripercussioni sulla stabilità dei mercati finanziari in caso di esproprio “a sorpresa”. Si sottolinea anche il rischio di minare la credibilità dell’Ue in materia di diritto internazionale e di proprietà, alimentando incertezza nei meccanismi di compensazioni tra istituti finanziari e inducendo investitori e intermediari a riconsiderare la loro esposizione all’area euro. Tuttavia, chi invoca la confisca argomenta che si tratterebbe di risorse immediatamente disponibili, senza oneri aggiuntivi per i bilanci nazionali, utili a finanziare infrastrutture, scuole e ospedali in Ucraina. Il principio “chi ha causato il danno paga” verrebbe così applicato in concreto, mentre un fondo stabile garantirebbe un flusso costante di sostegno evitando nuovi indebitamenti. Inoltre, questa opzione risponde alle sollecitazioni del Parlamento europeo e di numerosi governi affinché la Russia contribuisca effettivamente alla riparazione dei danni causati dall’aggressione. La decisione non è semplice.
Il dibattito è diviso in due fazioni. Da un lato ci sono coloro che sostengono che le ricadute politiche, giuridiche ed economiche della confisca siano maggiori dei benefici che se ne potrebbero trarre. Dall’altro quelli che ritengono corretta la confisca perché la ricostruzione dell’Ucraina dovrebbe gravare soprattutto sulle casse dello Stato che l’ha invasa. Da un lato la leadership politica e degli Stati preme per trovare soluzioni al problema della ricostruzione. Dall’altro operatori finanziari ed esperti appaiono più cauti perché temono si crei un precedente che possa minare alla base l’ordine economico mondiale. Esiste, forse, una terza via che metterebbe la diplomazia al centro: le risorse congelate potrebbero fungere da garanzia per prestiti a favore della ricostruzione, con l’impegno di una potenziale restituzione in futuro in caso di accordo di pace.
In questo modo si otterrebbe un sollievo immediato, si terrebbe conto della natura politica delle sanzioni e si terrebbe aperto il dialogo con Mosca circa il futuro utilizzo dei fondi. Infatti, è bene ricordare come il conflitto non sia ancora concluso e un negoziato in futuro potrebbe riguardare anche il destino di queste risorse. Un’eventuale confisca sarebbe parte di un accordo che farebbe rientrare la gestione di questo denaro all’interno dei confini della consuetudine del diritto internazionale. Nel bilancio di vantaggi e svantaggi, vanno ponderati rischi concreti – contenziosi internazionali, tensioni diplomatiche ed effetti sui mercati finanziari – e altrettanto reali costi reputazionali di breve e di lungo periodo. Allo stesso tempo, il ruolo internazionale dell’Europa passa anche attraverso la capacità di affrontare crisi internazionali, come l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. L’utilizzo temporaneo delle risorse congelate offre un’opportunità per coniugare rispetto dello stato di diritto con solidarietà e autorevolezza sul palcoscenico della politica internazionale. Una soluzione diplomatica che vada oltre l’attuale contrapposizione potrebbe essere il modo per dimostrare che l’Europa sa essere al tempo stesso rigorosa nelle regole e pronta ad assistere chi ha subito un’aggressione.
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