Meloni ha costruito la propria leadership comunicativa su un principio molto semplice: non si governa solo con le decisioni, ma con la percezione di saper decidere. È qui che entra in gioco la forma, e la forma, nel suo caso, è l’ordine. L’analisi di Martina Carone
La comunicazione di Giorgia Meloni nei primi mille giorni di governo è l’evoluzione coerente di quella campagna elettorale che nel 2022 l’ha portata a Palazzo Chigi. Un’estetica sobria, un linguaggio diretto, una narrazione centrata sul controllo: delle parole, dell’immagine, del ritmo.
Meloni ha costruito la propria leadership comunicativa su un principio molto semplice: non si governa solo con le decisioni, ma con la percezione di saper decidere. È qui che entra in gioco la forma, e la forma, nel suo caso, è l’ordine.
Prima della campagna del 2022, ci si sarebbe aspettati una Giorgia Meloni come l’avevamo conosciuta fino ad allora. E invece, nessun effetto speciale, nessun palco rotante, nessuna provocazione fuori dagli schemi. in compenso: una regia accurata dei contenuti. Gli interventi erano costruiti per diventare clip, i passaggi chiave studiati per diventare titoli. Il celebre “Io sono Giorgia” era stato già un laboratorio. Nel 2022, quella miccia ha acceso l’intera macchina narrativa, ricalibrata in chiave istituzionale: “Siamo pronti”.
Una volta al governo, Meloni ha preso le distanze dalla comunicazione iper-presidenziale, alla Macron o alla Draghi, fatta di conferenze stampa formali e rituali istituzionali. Ha scelto il contrario: pochi appuntamenti con i giornalisti, rari momenti di domande libere, quasi nessuna conferenza stampa classica. E quando ci sono state, come quella di fine anno, sono apparse diluite, controllate, introdotte da un lungo monologo preparato. La notizia arriva dopo, se arriva. le domande sono accolte all’inizio con pazienza, poi con sempre più fatica: alle ultime, giorgia meloni si mostra quasi spazientita.
D’altronde, la sostituzione simbolica è stata evidente: il video su Facebook o Instagram ha preso il posto della dichiarazione ufficiale. Nessun filtro, nessun contraddittorio, ma soprattutto: nessuna perdita di controllo sul frame. In questo senso, l’uso del mezzo digitale è stato meno “giovanilista” rispetto ad altri leader, ma molto più strategico. I video hanno un’estetica precisa: sfondo istituzionale, look rigoroso, tono deciso. La premier guarda in camera, scandisce i concetti, e mai improvvisa.
È un’estetica del potere che risponde anche a un’altra esigenza: quella di proteggere il corpo della leader da un’esposizione eccessiva o svalorizzante. La comunicazione visiva di Meloni è anche un anticorpo, un modo per evitare che l’aspetto, la voce, i capelli, diventino il centro del dibattito pubblico. La sobrietà vuole essere quindi anche autodifesa, oltre che strategia.
Il registro è basso, nel senso tecnico del termine. Non populista, ma popolare: parole comuni, cadenze familiari, struttura semplice. I verbi d’azione dominano: “fare”, “cambiare”, “dimostrare”. I nemici, se presenti, sono circoscritti, quasi mai nominati apertamente: meglio farli dedurre che nominarli. La polemica esiste, ma ha un tono sempre funzionale al racconto, mai fuori scala.
Lo stesso vale per le crisi. Nei momenti di difficoltà – Cutro, Cospito, Donzelli, Lollobrigida, la Magistratura, le Regionali – la comunicazione non esplode: si spegne. Si fa attendista, si scompone in piccoli segnali (un video, un post, una mezza frase), evitando l’escalation. La strategia è chiara: resistere al ciclo della polemica e rientrare in campo solo quando il racconto è di nuovo a favore.
Anche l’immagine visiva segue questa logica. Abiti scuri, pose sobrie, scenografie istituzionali. Mai un’immagine fuori posto, mai un’esposizione casuale. L’unica eccezione concessa è la dimensione internazionale: viaggi, vertici, sorrisi con i grandi del mondo, gli inchini scherzosi. In quei momenti, la narrazione vira verso il riconoscimento esterno e l’aplomb istituzionale.
Dietro quell’immagine curata c’è una leadership che si rifà a modelli tradizionali di comando. Meloni esercita il potere attraverso uno stile più affine a codici maschili, dove la forza simbolica prevale sulla mediazione fatta in favore di camera.
Non è poco. In un’epoca in cui molti leader si consumano nel rumore, Meloni ha scelto di sottrarsi al tempo reale, restando sempre un passo più in là, più tardi, più composta. Il rischio è quello dell’eccesso di rigidità – e talvolta si vede – ma il vantaggio è quello dell’affidabilità percepita.
La comunicazione “assenziale” nei momenti di crisi, sebbene strategica per evitare escalation, può sembrare distacco o mancanza di empatia. Durante il naufragio di Cutro, ad esempio, la premier ha atteso prima di intervenire, apparendo distante rispetto alla pressione emotiva suscitata sul territorio. Questo silenzio funzionale ha evitato la spirale delle polemiche, ma ha anche sollevato domande sulla sua disponibilità a rispondere in modo tempestivo e umano.
Il “silenzio tattico” funziona per neutralizzare polemiche, ma assume aspetti di deferenza nelle delicate tensioni con Salvini. Quando quest’ultimo fu assolto nel 2024 su Open Arms e balzò all’attacco mediatico, Meloni rispose con circospezione e vaghezza (“siamo contenti dell’ottimo lavoro…”, disse), invece di offrire una leadership comunicativa netta e autonoma — lasciando filtrare la sensazione di un Salvini “imbaldanzito” e di una premier trattenuta.
Nel primo comizio da presidente del Consiglio, a Vox (Madrid), Meloni ha dichiarato: “Non sono una marziana, sono una conservatrice”. Era un modo per rassicurare, ma anche per posizionarsi. In fondo, tutta la sua comunicazione ha un obiettivo implicito: non sembrare eccezionale, ma sembrare permanente. Non rivoluzionare, ma restare.
Ed è qui che sta, forse, il vero senso politico del suo stile: non è successo un cambio di paradigma, è stato evitato. La comunicazione di Giorgia Meloni è quella di chi vuole durare. E durare, in politica, è già una forma di potere.