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Governare il cambiamento o esserne travolti. Lezioni da Milano per una sinistra moderna

Governare le forze del cambiamento significa non dover rinunciare alla spinta che deriva dallo sviluppo, ma saperla incanalare, realizzando tempestivamente quelle riforme, che ne spianano la strada e riducono il rischio di esondazione. L’analisi di Gianfranco Polillo

C’è voluto il tempo necessario, ma alla fine il fascino potente dello sviluppo ha conquistato anche la sinistra. Il percorso, per la verità, è stato lungo e travagliato. All’inizio si parlava di un argomento destinato soltanto all’interesse dei “lor signori”. Mentre i proletari pensavano ad altro. Parlavano solo di giustizia sociale e di equità nella distribuzione del reddito. Senza minimamente pensare che quel reddito prima di essere redistribuito doveva essere prodotto. Ma questo, appunto, era il compito esclusivo, di “lor signori”.

Rinascita, il giornale fondato da Palmiro Togliatti, Organ House dell’intellighenzia comunista, aveva nei confronti dell’argomento una sorta di idiosincrasia. Cosa strana per un settimanale che pure aveva nel suo albero genealogico le opere di Marx ed Engels non certo sprovveduti teorici rispetto a quei temi. Ma il marxismo italiano aveva subito influenze diverse, in parte per sfuggire agli schematismi delle altre tradizioni: da quella francese, il principale concorrente, a quella sovietica. Ovviamente, quest’ultima, debordante. Dove la “prassi”, per riprendere una parola cara ad Antonio Gramsci, era quasi sempre modellata per consolidare il proprio potere sui cosiddetti partiti fratelli.

L’Unità, per contro, aveva scoperto i listini della borsa di Milano, pubblicandoli, solo in tarda età. Ed era stata una piccola rivoluzione, che aveva lasciato l’amaro in bocca a tanti militanti. E che ora si sentivano traditi dal nuovo atteggiamento revisionista. Ma il tempo marciava a passi da gigante, travolgendo gli ultimi giapponesi che si opponevano al cambiamento. Il gruppo dirigente dell’Unione sovietica era stato più lesto. Sfruttando abilmente alcune generiche affermazioni di Lenin, subito dopo il XX Congresso, quello della destalinizzazione, aveva aggiornato la sua piattaforma politica: non più l’inevitabilità del conflitto tra socialismo e capitalismo, bensì le possibilità di una “coesistenza pacifica”.

Si trattava di una mezza svolta. L’antagonismo con il blocco occidentale rimaneva. Ma il confronto si spostava: dal terreno militare a quello economico-sociale. Nikita Chruščёv, segretario generale del Pcup, aveva enunciato con forza questa teoria nel 1959, avendo dalla sua anche le analisi di influenti economisti occidentali, come l’inglese Maurice Dobb, pronto a giurare che il tasso di crescita dei Paesi del blocco socialista sarebbe stato di gran lunga superiore a quello dei Paesi Occidentali.

Ancora oggi non è facile valutare la portata di quelle affermazioni. Se esse rispondessero, cioè, ad una reale convinzione. O non fossero altro che semplice tattica, per evitare uno scontro che si sarebbe dimostrato perdente. Anche se non si deve dimenticare che due anni prima, l’Urss, sorprendendo gli Stati Uniti, era stata la prima ad inviare un satellite nello Spazio – lo Sputnik – a dimostrazione dell’impegno assunto sul fronte delle nuove tecnologie. Per la verità si trattò solo di un caso. Negli anni successivi quel gap fu interamente recuperato. E la supremazia tecnologica rimase, da allora, appannaggio dell’Occidente. Fino a determinare l’implosione della vecchia “Cortina di ferro”.

A scoprire la forza del mercato, nelle sue forme tipicamente capitaliste furono invece i comunisti cinesi. Merito soprattutto di Den Xiaoping, il padre della Cina moderna. Leader supremo del Partito comunista cinese, nel periodo 1978/89, fu il “capo architetto” di quelle riforme economiche che avrebbero trovato, nel modo di funzionare del mercato, seppure con caratteristiche cinesi, il loro punto di forza. “Il socialismo” – era solito dire – “non può significare amministrazione della miseria”. Deve essere soprattutto sviluppo delle forze produttive, per realizzare le grandi ambizioni di un programma di emancipazione sociale. Ieri più facile a dirsi che a farsi. Oggi, con la Cina prima economia mondiale, una sorta di miracolo pronosticato.

L’esempio cinese mostra la forza intrinseca di un meccanismo. La crescita del mercato, dalla sua infanzia pre-capitalista alla sua maturità, ha accompagnato la storia del genere umano. Vincendo barriere di varia natura. Dal predominio della vecchia rendita fondiaria che tarpava le ali agli innovatori, fino alle attuali forme globalizzate, che rimangono nonostante la crisi. Nei confronti della Cina ha distrutto una sovrastruttura culturale, di tipo ideologico, che minacciava di portare alla rovina quel grande Paese, non avendo a disposizione le grandi risorse naturali della Russia di Putin. Ha avuto quindi la forza di piegare una cultura, che aveva dalla sua millenni di storia.

Alla fine anche la sinistra italiana, seppure con qualche eccezione, come mostra la parabola discendente della Cgil, si è dovuta arrendere. Ha dovuto prendere atto che il mercato poteva essere un alleato prezioso nell’innalzamento del benessere collettivo della società. Purtroppo, tuttavia, si è trattato di un innamoramento tardivo. Pericoloso come lo sono queste situazioni nella vita di tutti i giorni. Quando spesso al giovin partner si concede ogni cosa. Tanta è la bramosia del possesso. Ed è allora che il rapporto, una volta paritario, si trasforma in dipendenza.

È quanto accaduto a Milano. Quello skyline proteso verso il cielo, frutto di una bellezza destinata a separarsi da un qualsiasi involucro utilitaristico, ha accecato ogni altro senso critico. A prescindere da qualsiasi episodio corruttivo su cui dovrà indagare la magistratura. Ha ammaliato tecnici e professionisti, imprenditori e uomini delle istituzioni: tutti conviti di dover lavorare per il futuro ed il bene della loro città. Perché lo sviluppo di cui quei progetti erano figli, altro non era che il sale della terra. Che, come tale, non poteva deludere.

Ingenuità da naïf. Avessero guardato con maggior circospezione, avrebbero potuto cogliere tutte le contraddizioni che quello stesso processo reca al suo interno. Lo sviluppo, indubbiamente, è crescita, quindi futuro. Ma è anche una forza elementare talmente potente che, se non controllata, è capace di travolgere ogni cosa. Fino a dettare l’agenda di governo. Scoperchiare ordinamenti giuridici fin troppo vetusti. Salvo poi costringere a ricercare difficili sanatorie, come nel caso del “Salva Milano”. Determinare profonde fratture sociali in grado di sconvolgere precedenti assetti demografici. Dando cittadinanza ai nuovi ricchi, ma deportando verso altri lidi gli abitanti di un tempo. Fino a mutare la stessa composizione sociale della città.

Si poteva fare diversamente, senza essere poi costretti a buttare il bambino con l’acqua sporca? Certamente sì, ma questo avrebbe richiesto qualcosa che oggi non si trova nella realtà politica italiana. Un diverso rapporto tra maggioranza e opposizione che non fosse la rissa quotidiana. Ma che al contrasto, quando è necessario, vi fosse anche la consapevolezza collettiva di calcare la tolda della stessa barca. Evitando gesti scomposti che rischiano di farla capovolgere. Governare le forze del cambiamento significa non dover rinunciare alla spinta che deriva dallo sviluppo, ma saperla incanalare, realizzando tempestivamente quelle riforme, che ne spianano la strada e riducono il rischio di esondazione. Quando l’Italia avrà raggiunto questa consapevolezza, sarà più facile utilizzare il grande potenziale produttivo del Paese per progetti di cambiamento che guardano al futuro.


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