Le consultazioni olandesi consegnano un quadro nel quale il populismo euroscettico di Wilders arretra, mentre avanzano le forze liberali e cristiano-democratiche. Tuttavia, per comporre il nuovo governo sarà necessaria una coalizione di almeno quattro partiti. Serviranno mesi e mesi di dure trattative. Però, per l’Europa, è un bel segnale. Intervista ad Alessio Vernetti, sondaggista e analista per YouTrend
Europa chiama Olanda. Dopo due anni di instabilità, l’elettorato olandese ha scelto la via del centro con uno sguardo a Bruxelles: avanzano i liberali di D66 e i cristiano-democratici del Cda, mentre Geert Wilders perde terreno. La destra populista arretra, il centro liberale si rafforza e il puzzle per formare un nuovo governo torna a complicarsi. L’unica via possibile, benché con non poche insidie, è quella di una maggioranza Ursula in salsa olandese. Quello che arriva dalle urne è, comunque, un segnale che riporta il baricentro dei Paesi Bassi a una proiezione maggiormente europeista, come spiega nella sua intervista a Formiche.net Alessio Vernetti, analista di YouTrend.
Vernetti, cosa ci dicono i numeri usciti dalle urne?
Gli olandesi hanno scelto la stabilità dopo un biennio turbolento. I centristi liberali di D66 e i cristiano-democratici di Cda guadagnano consenso, mentre il partito di Wilders perde undici seggi. È la fotografia di un Paese che prova a tornare al pragmatismo, e di un elettorato che rifiuta le derive populiste.
Il D66 sembra essere il vero vincitore politico.
Sì, è il miglior risultato della sua storia. Rob Jetten ha saputo rappresentare una linea europeista, moderata e riformista, capace di attrarre voti tanto dal centrodestra quanto dal centrosinistra. Resta il fatto, però, che la strada per la formazione di un nuovo esecutivo sarà molto lunga e complessa.
Wilders ha pagato, invece, la scelta iniziale di andare al governo?
Assolutamente si. La sua forza è sempre stata quella di essere all’opposizione, contro “il sistema”. Partecipare al governo Schoof lo ha reso meno credibile agli occhi dei suoi elettori, soprattutto dopo le tensioni sull’immigrazione che hanno fatto cadere l’esecutivo. È una parabola classica dei partiti populisti: quando governano, perdono identità.
La frammentazione però resta elevatissima. Quali scenari si aprono ora?
Per formare una maggioranza servono 76 seggi, e i numeri dicono che saranno necessari almeno quattro partiti. Il rischio è che si ripeta il copione del 2023, con mesi di trattative e la possibilità di dover ricorrere a un premier tecnico. Il sistema proporzionale olandese favorisce il pluralismo, ma rende la composizione della compagine di governo particolarmente eterogenea e, di conseguenza, di difficile gestione.
Quindi, di fatto, ci sarà un’alleanza tra centrodestra e centrosinistra?
È, l’unica strada percorribile. L’equilibrio potrebbe reggersi su un’alleanza tra liberali, cristiano-democratici, e forse una componente progressista come i laburisti e i verdi. Ma sarebbe una coalizione fragile, dagli equilibri molto molto instabili.
Che messaggio arriva all’Europa?
Un messaggio positivo per Bruxelles. Il rafforzamento dei liberali e dei cristiano-democratici è un segnale a favore delle forze europeiste. L’arretramento di Wilders frena la spinta euroscettica e, indirettamente, consolida la maggioranza Ursula. È come se l’Olanda avesse deciso di rientrare nel solco europeo dopo anni di turbolenze.
Possiamo dire che l’Europa tira un sospiro di sollievo?
Sì, ma non troppo profondo. La partita politica olandese è tutt’altro che chiusa: serviranno, come detto, mesi per avere un governo stabile. Tuttavia, la direzione è chiara, il populismo arretra, il centro torna protagonista, e il voto olandese manda un segnale di continuità e fiducia all’Unione.
















