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Bin Salman a Washington. Svolta nei rapporti tra Stati Uniti e Arabia Saudita?

La visita di Mohammed bin Salman a Washington il 18 novembre segna il riavvicinamento strategico tra Stati Uniti e Arabia Saudita, con focus su difesa, energia e investimenti. Sul tavolo F-35, nucleare civile, intelligenza artificiale e soprattutto un possibile patto di sicurezza modellato sull’accordo Usa-Qatar

Il principe ereditario e premier saudita, Mohammed bin Salman (MbS), sarà a Washington il 18 novembre per il suo primo viaggio ufficiale negli Stati Uniti dal 2018. La visita, annunciata lunedì dalla Casa Bianca, segna un punto di svolta nei rapporti bilaterali, logorati dopo l’uccisione di Jamal Khashoggi e rimasti tesi durante l’amministrazione Biden. L’annuncio segue una telefonata tra il ministro degli Esteri saudita, Faisal bin Farhan, e l’omologo americano, il segretario Marco Rubio, durante la quale sono stati discussi i principali dossier regionali e i passi preparatori per il vertice, secondo una nota diffusa da Riad.

La visita fa seguito al viaggio di Donald Trump a Riad, a maggio scorso, scelto come prima missione all’estero dopo la rielezione. Quell’incontro era stato interpretato come un segnale del peso crescente dell’Arabia Saudita nel nuovo equilibrio mediorientale, sia per il ruolo chiave del Regno nella stabilità regionale sia per l’impatto delle riforme economiche promosse con Vision 2030.

Tra i temi sensibili dell’agenda c’è la richiesta saudita di acquistare i caccia stealth F-35A, i velivoli di quinta generazione che rappresentano la migliore tecnologia da combattimento aereo che gli Usa mettono a disposizione degli alleati. Durante la presidenza Biden, la richiesta era stata bloccata, sia per distanze di posizione politica, sia perché la vendita di F-35 — che non sono semplicemente aerei ma piattaforme da combattimento — presuppone una serie di elementi delicati nell’intera catena funzionale (tra questi, le unità IT cinesi presenti in Arabia Saudita, che potrebbero interferire o spiare i mezzi statunitensi).

Secondo fonti diplomatiche riportate dall’israeliano Ynet News e dal New York Times, la delegazione saudita intende riaprire il negoziato sugli F-35 e su nuove tecnologie americane per un programma nucleare civile pacifico. Trump si è detto favorevole a procedere, definendo la vendita “un impulso per l’industria americana”. L’operazione, dal valore di diversi miliardi di dollari, suscita però preoccupazioni sia interne che esterne. Tel Aviv per esempio rivendica il ruolo israeliano di primus inter pares tra gli alleati o partner statunitensi nella regione: ruolo permesso anche grazie alla fornitura di F-35 — che Israele chiama “Adir”, modificati secondo sue esigenze. La preoccupazione che la vendita dei velivoli di Lockheed Martin potrebbe ridurre il vantaggio militare qualitativo israeliano, tutelato per legge dagli Stati Uniti, è parte della discussione tra i congressisti, che poi si lega (sebbene in parte minoritaria) anche alla percezione non del tutto lineare dell’Arabia Saudita. Fonti diplomatiche indicano che un’eventuale intesa preliminare potrebbe essere annunciata in vista del World Defense Show di Riad, previsto per febbraio 2026, evento in cui il Regno punta a consolidare la propria immagine di hub globale della difesa.

La vendita degli F-35 rientra nel quadro di un grande accordo tra Washington e Riad su cui si sta lavorando da tempo, e su cui le garanzie di sicurezza che gli Usa hanno fornito al Qatar — dopo l’attacco subito da Israele a settembre. Il testo prevederebbe cooperazione militare rafforzata, anche tramite il consolidamento di basi americane permanenti, e impegni di sicurezza reciproci, delineando una cornice “simil-Nato” nel Golfo. I sostenitori lo considerano una misura di deterrenza contro Iran e Houthi; i critici temono un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti in nuovi conflitti regionali. Certamente sarà l’architrave della nuova architettura di sicurezza nel Medio Oriente.

MbS punta anche a ottenere un’intesa sul nucleare civile ai sensi della Sezione 123 dell’Atomic Energy Act, che consentirebbe la partecipazione di aziende statunitensi al programma saudita per l’energia atomica “a fini pacifici”. Riad chiede il diritto limitato ad arricchire uranio sul proprio territorio — una linea finora respinta da Washington. Trump, più flessibile dei suoi predecessori, considera il progetto un tassello di Vision 2030 e della diversificazione economica del Regno, ma le preoccupazioni sulla proliferazione restano aperte.

La visita comprenderà anche accordi su intelligenza artificiale, infrastrutture e transizione energetica. Secondo fonti saudite, gli investimenti congiunti potrebbero valere decine di miliardi di dollari. Trump intende legare ogni intesa al principio di reciprocità economica, in linea con la sua agenda “America First”, promuovendo la partecipazione diretta del settore privato.

Sul piano diplomatico, la Casa Bianca punta a rilanciare la normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele nell’ambito degli Accordi di Abramo. Bin Salman, tuttavia, continua a vincolare ogni progresso a un percorso credibile verso la creazione di uno Stato palestinese, rendendo improbabile un annuncio immediato per ragioni di interesse interno: sebbene parte del suo stesso interesse strategico, il leader non può esporsi eccessivamente per via della necessità di evitare di sensibilizzare troppo la collettività saudita. Non a caso, il vertice avviene a poche settimane dal cessate il fuoco a Gaza, in un contesto delicato che Trump vuole trasformare in un banco di prova per riaffermare la leadership americana nel Medio Oriente post-conflitto. E che i grandi Paesi arabi vogliono sfruttare per riportare equilibri e stabilità nella regione per permettere un flusso più ordinato dei loro interessi strategici.


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