Nonostante riserve record e un patrimonio aureo tra i più alti del mondo, l’Italia resta un Paese fermo. I capitali fuggono, gli investimenti interni languono e la crescita resta a zero. Il vero tabù non è il debito, ma l’incapacità di usare la ricchezza per creare sviluppo
Purtroppo gli ultimi dati Istat – crescita zero nel terzo trimestre – non sono confortanti. Vero è che essi sono ancora coerenti con le previsioni governative – crescita dello 0,5% a fine anno – ma il dato non può consolare. Destinato com’è ad accrescere la polemica da parte di un’opposizione, da tempo sul piede di guerra. Assisteremo, pertanto, ad un dibattito sempre più surreale, come è stato del resto quello degli ultimi 10 anni, che ha accompagnato ogni volta il varo della legge di bilancio.
Fosse ancora vivo il grande Totò non avrebbe esitato a parlare di quisquilie e pinzellacchere. Mentre il lato più oscuro della crisi italiana rimaneva quel tabù che, per anni, è stato ignorato e rimosso. Peccato! Ad averci pensato in tempo, oggi la società italiana sarebbe risultata profondamente diversa: più resiliente e tonica. Ed al tempo stesso più giusta. Capace cioè di assicurare alla maggior parte dei suoi cittadini una vita migliore. Se ciò non è avvenuto, le colpe sono diffuse. Riguardano indubbiamente il ceto politico, ma non solo. Sulla stessa barca si ritrovano sindacati ed imprenditori. Soprattutto tutti coloro che hanno ceduto, in questi anni, alla suggestione del pensiero unico della cultura liberal – mercatista.
Disvelare quel tabù di cui si diceva all’inizio porta ad un terreno specialistico. Che spiega l’alone di mistero che lo ha, per tutti questi anni, circondato. Il dato di partenza è puramente quantitativo. Lo scorso settembre, le riserve ufficiali italiane, gestite dalla Banca d’Italia, avevano raggiunto un valore pari a 332 miliardi di euro. Valore ch’era raddoppiato rispetto agli inizi del 2020. Merito soprattutto dell’andamento del prezzo dell’oro. Il valore dei lingotti depositati nei vari caveau era passato, in pratica triplicando, da 80 miliardi di euro dell’ottobre 2018 a 256 dello scorso settembre. Con una più forte accelerazione (riflesso delle politiche di Trump) negli ultimi mesi di quest’anno.
In Europa le riserve ufficiali italiane sono inferiori solo a quelle tedesche, che hanno raggiunto quota i 378 miliardi di dollari lo scorso anno, contro i 291 dell’Italia. Sennonché se si rapportano al Pil, il primato italiano, secondo i dati della Banca mondiale, risultava nuovamente incontestabile: 9,7% del Pil contro il 6,3. A livello di G7, l’Italia è seconda solo al Giappone. In compenso, il Bel Paese risulta sempre agli ultimi posti della relativa classifica, quanto a tasso di sviluppo, fin dal lontano ciclo 1993/2008. Sia che il confronto avvenga tra le economie avanzate, sia che si restringa a livello di G7 o europeo: nelle due diverse versioni della Zona euro o della Ue, a 27.
Insomma l’immagine dell’Italia è quella di una vecchia aristocratica, più che patrimonializzata, ma con un reddito del tutto insufficiente. Per cui per vivere deve vendere ogni anno qualche gioiello di famiglia. In teoria potrebbe fare la stessa cosa con le proprie riserve auree. Vendere ogni anno una parte dell’oro posseduto, essendo il terzo Paese al mondo per la quantità di di metallo giallo a disposizione. Ma questa è solo un’ipotesi teorica. Accordi di carattere internazionali impediscono alle singole banche centrali di procedere in quel modo. Al tempo stesso la convenienza dell’operazione sarebbe tutta da dimostrare. L’eventualità vendite determinerebbero un abbattimento dei corsi, riflettendosi immediatamente sul resto dello stock posseduto.
Per risolvere il dilemma si deve operare, pertanto, su un terreno diverso. Che poi è quello della politica economica, i cui risultati vanno analizzati con una lente di ingrandimento. Secondo i dati della Banca d’Italia, nel decennio 2015/2024 il saldo cumulato delle partite correnti (una delle fonti principali che incide sull’andamento delle riserve) e del conto capitale è stato pari a 344 miliardi di euro. Se si considerano poi gli errori e le omissioni (forme di esportazione illegale di capitale, per un valore pari ad oltre 80 miliardi) quella cifra sale a 425 miliardi di euro. Pari al totale del conto finanziario che, per definizione, rappresenta l’altra ripartizione della bilancia dei pagamenti.
Questa somma, pari a circa il 75% della maggiore ricchezza prodotta nello stesso periodo, è stata messa a disposizione dell’estero. Salvo una piccola percentuale circa il 3%, che è andata a formare le maggiori riserve ufficiali. È interessante osservare come nello stesso periodo gli investimenti netti totali in Italia siano stati pari a soli 188 miliardi di euro: meno della metà delle somme investite all’estero. Ma investite come? Da questo punto di vista il panorama è ancora più disarmante. Gli altri investono in Italia in forma diretta. Vale a dire comprando aziende, aprendo proprie filiali, partecipando al capitale delle imprese italiane: 334 miliardi di euro in dieci anni.
Gli investimenti italiani, invece, sono prevalentemente di portafoglio. Non incidono sulla governance della singola impresa. Nè sulla relativa gestione: quei 720 miliardi di euro (questo è il loro importo), in altre parole, garantiscono niente altro che semplici interessi. Sebbene siano stati pari a quasi quattro volte gli investimenti netti effettuati in Italia. Tagliatori di cedole da un lato, quindi, contro predatori dall’altro: questo è il rapporto. Che rende difficile vincere la partita nella giungla del libero mercato. Ed allora non resta che accumulare altre riserve. Ulteriori 39 miliardi nei primi nove mesi dell’anno. Lungo una strada che, tuttavia, non porta lontano.
Le riserve accumulate rappresentano, comunque, una rete di sicurezza tale da consentire sperimentazioni più ardite. Per qualche anno si può fare a meno di avere una bilancia dei pagamenti in surplus. Si può pertanto far crescere la domanda interna ben oltre i modesti livelli degli anni precedenti, grazie ad un aumento dei salari (Landini se ci sei, batti un colpo) ed anche ad un maggior tiraggio della spesa pubblica, dopo averne spiegate a Bruxelles le relative ragioni. Sarebbe il traino necessario per avere un maggior volume di investimenti interni e quindi un maggior tasso di sviluppo. Ferma restando il fatto che le maggiori spese militari per la sicurezza potranno comunque avere un effetto positivo.
Fino a che punto si può rischiare? I dati relativi al decennio trascorso parlano chiaro. L’Italia ha conosciuto un deficit delle partite correnti e del conto capitale della bilancia dei pagamenti (7,7 miliardi di euro) solo nel 2022. Nonostante ciò, anche in quell’anno le riserve ufficiali aumentarono di oltre 10 miliardi: di cui 2 per effetto degli andamenti del conto finanziario e ben altri 8 per il maggior valore delle sue diverse componenti (valute, oro e via dicendo). Come si vede i margini sono relativamente ampi anche nell’ipotesi in cui un eccesso della domanda interna, rispetto al potenziale produttivo esistente, potesse determinare un deficit valutario.
Ma c’è sempre il fardello del debito pubblico, si potrebbe osservare. Il terribile Cerbero posto a presidio di una politica di austerity. Giorgetti docet. Una politica espansiva ne comporterà necessariamente un’ulteriore crescita? Non è detto. Dipenderà dal rapporto tra numeratore e denominatore. Vale a dire dal differenziale tra la crescita del Pil e l’eventuale incremento del debito. Dati da incorporare entrambi negli schemi previsionali, nella ricerca di una giusta alternativa a quello status quo che di per sé rappresenta già una terribile condanna. Alla quale si può sfuggire, ma solo dopo aver superato le più ingiustificate paure
















