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La crescita cinese rende impossibile il commercio. Ed è una strategia

Un “importante” articolo del Financial Times spiega come la Cina stia ridefinendo il commercio globale, rifiutando qualsiasi dipendenza dall’estero, trasformando la crescita in un gioco a somma zero per il resto del mondo. Le conseguenze obbligano l’Europa a scegliere tra riforme dolorose o un protezionismo sempre più inevitabile

Robin Harding, Asia editor del Financial Times, racconta un suo recente viaggio in Cina durante il quale ha posto a economisti, esperti di tecnologie avanzate e altri imprenditori una domanda tanto semplice quanto destabilizzante: che cosa vuole davvero importare la Cina dal resto del mondo? Le risposte, spesso esitanti, oscillavano dai beni primari come soia e minerali ai prodotti di lusso occidentali fino all’istruzione universitaria, senza però riuscire a individuare un ambito strategico in cui Pechino sembri pronta a dipendere dall’estero. Dietro questa incertezza si cela la tesi, più radicale, che Harding esplicita in un articolo che sta circolando molto tra esperti di economia e osservatori delle politiche globali: la Cina non vuole importare nulla che ritenga essenziale per la propria crescita futura.

Il pezzo, con tanto di sigillo di garanzia “importante” di Gideon Rachman (capo dei commentatori sugli Esteri del FT e tra i più autorevoli giornalisti internazionali) non tratta un paradosso astratto. La Cina è ancora un grande acquirente di semiconduttori, software, macchinari avanzati e aerei commerciali, ma si comporta, sostiene Harding, come uno specializzando che apprende per emanciparsi dal maestro. Per ogni tecnologia che oggi compra, Pechino sta già sviluppando un’alternativa domestica, con l’obiettivo di produrla, perfezionarla e venderla al resto del mondo. La strategia è nutrita da una diffusa percezione d’insicurezza, che i suoi interlocutori rimarcano con naturalezza: gli Stati Uniti usano il controllo delle esportazioni come uno strumento di contenimento e costringono Pechino a ridurre ogni forma di dipendenza. Il risultato non è un sistema più stabile, ma un commercio sempre più sbilanciato.

Se la Cina non vuole acquistare nulla di ciò che dà valore alle economie avanzate, osserva Harding, il resto del mondo si trova in un vicolo cieco. Europa, Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud hanno bisogno di esportare per sostenere sviluppo e occupazione, e senza un mercato di sbocco rischiano, nel tempo, di non avere più un modo per pagare ciò che importano dalla Cina. È un’asimmetria che finisce per capovolgere la logica della globalizzazione: la crescita cinese, lungi dall’aprire nuove opportunità, comincia a sottrarre spazio agli altri. Ossia, come da titolo del pezzo: “La Cina sta rendendo il commercio impossibile”.

Un recente aggiornamento delle previsioni di Goldman Sachs lo mostra con chiarezza, indicando che un’espansione più rapida dell’economia cinese comporterebbe un freno per i partner commerciali, soprattutto per Paesi come la Germania.

Harding riconosce che esisterebbe una via d’uscita, ma solo nelle mani di Pechino. Un aumento dei consumi interni, la rimozione delle barriere strutturali, l’apprezzamento del renminbi e una riduzione dei sussidi industriali ristabilirebbero un equilibrio più sano. Tuttavia, le nuove linee guida del prossimo Piano Quinquennale indicano priorità opposte: prima la manifattura, poi la tecnologia e, solo dopo, i consumi. In assenza di un cambio di rotta, l’Europa si trova di fronte a due alternative: un doloroso processo di riforme per ricostruire competitività o un ricorso crescente al protezionismo. Entrambe comportano costi elevati, ma la seconda rischia di essere l’unica praticabile se la Cina continuerà a rendere il libero scambio un esercizio teorico, più che un progetto condiviso.

Quanto analizza Harding si intreccia con una serie di processi già in atto, che stanno ridefinendo il rapporto tra l’Europa e la Cina. Il de-risking, divenuto una parola chiave della politica economica occidentale, non è più un’etichetta teorica ma una pratica che sta riprogrammando l’intera relazione con Pechino, come emerge con chiarezza dai dibattiti accademici e istituzionali, per esempio quelli emersi nell’incontro congiunto fra Johns Hopkins e l’Università di Bologna. A questo si aggiunge la costruzione di catene di approvvigionamento considerate “resilienti”, un termine che nella retorica europea indica la necessità di proteggersi dalle distorsioni prodotte dal modello cinese e che, nella realtà, rispecchia il tentativo di ridefinire la geografia stessa del valore globale. In tale contesto assumono un ruolo decisivo gli snodi tecnologici e regolatori come Imec, insieme alla progressiva estensione di piattaforme comuni con partner che condividono lo stesso approccio. La dimensione transatlantica resta la colonna portante, ma il processo non può esaurirsi lì: l’Europa deve consolidare connessioni con India, Paesi del Golfo, Africa e con gli attori industriali più avanzati dell’Asia orientale, come Giappone, Corea del Sud e Taiwan.

La conseguenza è che, se la Cina dovesse ridurre ulteriormente il suo ricorso alle importazioni, verrebbe meno anche la tradizionale leva della coercizione tariffaria, uno strumento che Pechino ha utilizzato più volte per esercitare pressione politica. In un sistema in cui la Cina esporta molto ma importa sempre meno, la dinamica di ritorsione commerciale perderebbe peso, lasciando spazio a una postura più assertiva nei dossier strategici. È in questo quadro che acquista rilievo uno degli scenari delineati dalla Chatham House attraverso il metodo del backcasting: una Cina egemone nel Mar Cinese Meridionale entro il 2035 e, di conseguenza, dominante nel più ampio Indo-Pacifico. Se l’autosufficienza dovesse consolidarsi come principio guida della politica economica cinese, l’effetto sistemico sarebbe quello di allargare il divario di potere, riducendo gli strumenti di risposta per i partner commerciali e consolidando una posizione di forza che, da economica, rischierebbe di tradursi in una superiorità geopolitica difficilmente controbilanciabile.

Chiosa da Pechino: “La Cina ha bisogno di importare energia, minerali e semiconduttori dall’estero, nonché un’ampia gamma di attrezzature prodotte all’estero. Facciamo affidamento sui prodotti agricoli esteri, importando indirettamente luce solare e acqua da altri paesi. Importiamo tutti i tipi di beni di consumo di lusso e i nostri turisti e studenti viaggiano all’estero, importando di fatto istruzione e servizi dall’estero”, commenta Hu Xijin, giornalista del Global Times attivissimo su X nella diffusione e protezione delle narrazione strategica cinese. E dunque, spiega “non bisogna sopravvalutare l’attuale surplus commerciale della Cina. La visione cinese di una comunità con un futuro condiviso per l’umanità si basa su una premessa fondamentale: la prosperità comune del mondo intero”. Una fonte diplomatica commenta a sua volta: “La reazione difensiva di Hu Xijin ci conferma che Harding ha colto nel segno”.


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