La conferenza annuale del Partito conservatore britannico si è conclusa verso le 15 – ora italiana – a Birmingham. L’intervento cruciale è toccato ovviamente a Theresa May e tutti i principali quotidiani del Paese hanno provato ad ingannare l’attesa riportando stralci del discorso del primo ministro sulla base delle anticipazioni diffuse dal governo di Londra.
Dopo lo scossone che le è arrivato dall’intemperante Boris Johnson, oggi l’ennesimo brutto colpo a pochi minuti dal suo discorso di chiusura al congresso: un deputato del suo partito, James Duddridge, ha formalizzato stamattina la prima mozione ufficiale di sfiducia contro la leadership della premier, inviando una lettera al comitato 1922 – l’organismo del partito incaricato di convocare l’elezione del leader in caso di raggiungimento di un quorum minimo di deputati richiedenti. Quorum che per ora non risulta, ma che sulla carta appare possibile da raggiungere. “Abbiamo bisogno di un leader forte e al momento non lo abbiamo”, si legge nella missiva.
Ma, incurante di tutto, Theresa May è salita a passo di danza sul palco del congresso Tory di Birmingham. Con fare spavaldo, sicura di sé, la premier ha ballato sulle note degli Abba e poi ha scherzato sulle disavventure del discorso dell’anno passato, funestato dalla sua tosse persistente e dalle lettere dello slogan alle sue spalle che cadevano ad ogni esternazione. S’è trattato del discorso che probabilmente ha fatto più la differenza, quanto meno nell’ultimo anno. È stato ben distribuito, ben scritto, e l’autoironia ha rappresentato una rivelazione (la May non è mai stata associata all’umorismo): capace di lanciare un messaggio ottimista che, allo stesso tempo, dà anche ai Tories qualcosa da vendere agli elettori.
Dopo la Brexit, il Regno Unito avrà “tutto ciò che serve per avere successo, il nostro futuro è nelle nostre mani”, così ha esordito lanciando un messaggio tutto teso a recuperare l’unità interna nel partito, in modo da portare a casa un “divorzio di successo” con l’Ue. “Se siamo uniti, non c’è limite a quello che possiamo raggiungere”.
Poi il passaggio dedicato alle differenze con il Labour di Jeremy Corbyn, accusato di non condividere “i valori comuni del Paese”, di tollerare l’antisemitismo e di criticare “la libera stampa”. “Milioni di persone che non hanno mai sostenuto il nostro partito in passato sono sconvolte da ciò che Jeremy Corbyn ha fatto con il Labour”.
Con un discorso persuasivo e ben impostato, la May è tornata ancora e ancora sulla Brexit – d’altronde è quello che più interessa agli inglesi oggi –, ribadendo che il suo compito è quello di dare onore al referendum del 2016, ma anche di mantenere un buon rapporto con l’Ue. “Nessuno vuole un accordo più di lei”, ha detto ma è disposta anche ad accettare un no deal. “La Gran Bretagna non ha paura di partire senza un accordo, se deve. […] Anche perché le proposte di Bruxelles sono inaccettabili”- accento sulla questione che la platea ha gradito con un lungo applauso. E a proposito di un secondo referendum, “lo chiamano voto popolare, ma abbiamo già avuto un voto popolare e il popolo ha scelto. Un secondo sarebbe un voto politico: i politici hanno detto alla gente che ha sbagliato la prima volta, e deve scegliere di nuovo”.
“La libertà di movimento (dalla Ue, ndr) finirà una volta per tutte”, ha sottolineato poi Theresa May, spiegando che dopo la Brexit l’immigrazione dipenderà dalle “qualifiche” dei lavoratori e non “dal Paese di provenienza”. Qualcuno azzarda anche che il discorso del primo ministro sia stato migliore anche di quello di Johnson ieri.
May, quindi, da Birmingham ci riprova e cerca di fare la pace con il suo partito e con gli inglesi. È a loro, infatti, che si rivolge annunciando che l’austerità è finita e che sta iniziando una nuova era per la Gran Bretagna. I detrattori ironizzano, ma May non è il tipo da annunci sensazionali. L’autunno, l’abbiamo già detto, è lungo e già caldo: è tutto nelle mani del governo. E “opportunità” è la loro parola chiave, fanno sapere direttamente da Birmingham.