Una sorta di lebbra intellettuale ha contagiato in almeno due decenni, dopo essersi manifestato in sordina, l’opinione pubblica mondiale: il pensiero unico. Definirlo non è mai stato facile, ma il ricorso alle categorie del conformismo culturale e dell’omologazione comportamentale e dell’invadenza del mercatismo con i suoi derivati consumistici forse spiega qualcosa anche se non l’essenza profonda che va toccata con mano.
Vale a dire “provata” nel modo di sentire dei singoli e delle collettività smarrite in una polvere sempre più fitta che cela la realtà effettuale e la rende sbiadita, dunque falsa nella sua universale percezione a beneficio dei “padroni” delle mentalità i quali, tutt’altro che occultamente, perpetrano l’inganno della trasposizione della verità in un universo costruito a loro immagine, somiglianza e interesse per poter dominare l’umanità sottoponendola ad una sorta di “virtualità” finalizzata a ritenere “lecito” ciò che viene deciso in base a logiche economiche e finanziarie culturalmente funzionali allo scopo che si propongono.
Il risultato immediato è la cancellazione delle differenze, l’appiattimento su modelli precostituiti che – con la determinante scomposizione della razionalità – formano universi paralleli nei quali la sovversione del mondo di intendere il reale viene imposto quale “morale” oggettiva. E perfino i nomi delle cose, delle specie, delle figure viventi e di quelle apparenti risultano travolti da una colossale impostura il cui ultimo fine è la distruzione delle distinzioni e dunque delle civiltà, delle culture, delle storie. Il pensiero unico è il sistema più efficace per uccidere i popoli, per sterminare le loro identità, per annullare origini e radici.
In un denso quanto prezioso libro, Politicamente corretto. Storia di un’ideologia (Marsilio, pp.207, € 17,00) lo studioso Eugenio Capozzi rivela le coordinate dello smantellamento sistematico operato da una menzogna che è ormai diventata l’idea-guida di Stati, popoli e nazioni alla quale si sottraggono minoranze, non sempre attive come la necessità richiederebbe, nel contrapporsi ad una gigantesca operazione sovvertitrice del senso comune a beneficio di oligarchi tutt’altro che evidenti i cui terminali operano nell’industria della comunicazione ed arrivano fino alle agenzie di formazione e s’insinuano nei parlamenti e tra le forze politiche.
L’orientamento del pensiero unico è quello di conquistare il mondo rendendolo permeabile ad un’idea di egualitarismo pregiudicante l’emersione di nuove élites, per non dire di aristocrazie del pensiero. La tecnologia ha un ruolo decisivo in questo progetto fondato sul progressismo come filosofia pubblica e fondamento della convivenza civile. L’incarnazione, insomma, come dice Capozzi, del relativismo etico cui soggiace la stragrande maggioranza degli individui la cui “cifra” comune è sostanzialmente l’ignoranza.
Ed è per questo che l’industria culturale – prona ai disegni dell’economia finanziaria mondialista – s’ingegna a smantellare il passato, ad enfatizzare il presente e a fantasticare sul futuro, cioè a dire a impegnarsi in un’operazione di radicale cancellazione della storia non diversamente da quanto avvenne con l’irruzione dell’Illuminismo nella storia del pensiero ed il conseguente giacobinismo nella versione politico-terroristica di quell’ideologia secondo la quale la storia cominciava dall’acquisizione di un “razionalismo ottriato”, concesso cioè dalle classi dirigenti del tempo, i Philosophes rivoluzionari, atei e “immoralisti”, al popolo che di quella parodia di libertà fu vittima inconsapevole all’inizio per poi assumerla come forma di vita.
Il pensiero unico ha ridotto letteratura, arte, poesia, filosofia, costumi e linguaggio ad orpelli ancillari di modalità espressive tese a compiacere l’uniformità e ad abbandonare le differenze culturali. Sintomatica, per fare un esempio, l’ipocrisia di autorità timorose di mostrare i prodotti dell’ingegno della loro civiltà a chi nutre altre legittime sensibilità. Grottesco ed imbecille, al tempo stesso, fu la copertura dei nudi maschili e femminili delle statue dei Musei Capitolini, nel gennaio 2016, per non “offendere” il presidente iraniano Hassan Rouhani, in ossequio al rispetto dell’islamismo… Racconta Capozzi, per esemplificare ulteriormente, che un classico come Huckleberry Finn di Mark Twain è stato recentemente pubblicato da una casa editrice americana sostituendo la parola nigger con black e slave, dimenticando che “negro” o “négre” in francese non avevano mai avuto una connotazione negativa, tanto che un grande statista-intellettuale, oltre che straordinario poeta, Léopold Sédar Senghor, primo presidente del Senegal libero, coniò, orgogliosamente, il termine “negritudine” per definire l’identità africana, senza rinnegare la tradizione latina della quale il suo popolo pur era tributario, guadagnandosi oltre che l’affetto dei senegalesi (uno dei pochi leader africani mai messi in discussione) anche un posto nell’Accademia di Francia.
L’ imbecillità fa più male delle baionette, disse qualcuno. Ma sull’imbecillità è stato costruito un sistema se non proprio speculativo di dominio certamente. Il sistema del pensiero unico, appunto. Una tendenza, come sottolinea Capozzi, che si fonda sulla censura preventiva e “conduce ad esiti talvolta grotteschi quando diviene una forma di protezione preventiva da partire di autorità pubbliche o istituzioni persino contro la semplice eventualità di pubblicizzazione di contenuti offensivi in qualsiasi sede”.
Le espressioni politically correct e political correctness hanno preso piede nel dibattito pubblico occidentale partendo dagli Usa, contaminando dapprima tutto il mondo anglosassone e poi dilagando in mezzo mondo fino all’Oriente estremo, come in Giappone dove lo snaturamento di una grande tradizione culturale è avvenuto in parallelo con la decadenza dei costumi che hanno assunto le grottesche modulazioni occidentaliste.
Il progressismo è, dunque, l’essenza del pensiero unico. Il suo nemico principale è la Tradizione, secondo i “nuovisti” terribile evocazione di epoche brutali, bestiali, sinonimo di irrazionalità dove Dio, il sacro, la famiglia, la comunità, le gerarchie, il rispetto, la lealtà, la fedeltà, la ricerca del bene comune che indiscutibilmente connotavano società sane, per quanto non esenti da crisi di legittimità interne e da aggressioni militari e poi culturali esterne.
Una società, quella tradizionale, tendente ad un ordine che si concretava in forme politico-istituzionali che potremmo riassumere nella formula dello “Stato organico” nel quale il popolo e gli aristocratici erano meno distanti di quanto il “politicamente corretto” induce a ritenere rileggendo la storia di Roma o della Grecia o di Sparta. Era la negazione della secolarizzazione – dato essenziale della modernità – in favore della tensione verso il sacro a caratterizzare le società tradizionali. E le differenze qualitative e di genere costituivano la ricchezza di quel mondo euro-mediterraneo, per restare vicini alla nostra storia, che oggi sono latitanti nella forma, ma hanno assunto fattezze che esulano dalla connotazione spirituale dell’antichità per presentarsi con il vezzo di vellicare ambizioni false facendo credere che tutti siamo uguali noni davanti alla legge, ma alla “sola” legge riconoscibile, quella del mercato.
Peccato che non tutti vi si possano conformare…Giovanni Sessa, studioso di filosofia politica ed uno degli intellettuali più acuti nel decifrare le deformazioni della modernità, ha scritto un agile e godibile libro intitolato semplicemente Tradizione. Demitizzare la modernità (Nazione futura, pp.129, € 13,00) nel quale si colgono le antinomie insanabili in rapporto con il pensiero unico. E risaltano le profonde differenze anche con quell’anima razionalista che ne costituisce il fondamento.
Sicché è al mondo della Tradizione, con i suoi valori, che il pensiero unico – demolitore di quegli elementi sopra ricordati, a cominciare dalla centralità ed unicità della persona – si rivolge per affossarlo definitivamente attraverso l’istruzione, le tecnologie di massa, le visioni massificanti (variamente colorate) di un‘ umanità sbandata, in deliqui davanti ai gadget effimeri della modernità. Ed è un’umanità priva di ogni prospettiva storica, a differenza di quanto si riscontrava nel mondo della Tradizione, dunque soggetta allo stato di natura e governata dalla necessità economica nella quale affondano i suoi destini.
Per questo oggi tutto è liquido, transeunte, provvisorio, precario. Una sorta di totalitarismo del nulla, “morbido” come può esserlo una tecnica che gratifica accarezzando subdolamente coloro che vuol sottomettere. Sostiene Sessa che il mondo della Tradizione – non importa tra quanto tempo – può essere la risposta efficace allo sradicamento contemporaneo, al pensiero unico. E scrive: “Guardare alla Tradizione, dal punto di vista politico, implica assumere una posizione critica nei confronti dei totalitarismi moderni, nelle loro diverse varianti, oltre che nei confronti della governance, il nuovo regime che si sta imponendo, quale espropriazione delle identità culturali, politiche, negatore della sovranità popolare e braccio amministrativo delle oligarchie transnazionali”.
Il progetto neo-illuminista, per quanto trionfante nelle forme espresse dal pensiero unico, mostra comunque la sua debolezza, come illustra Sessa. Essa è destinata a manifestarsi quanto più crescente sarà l’insoddisfazione dei popoli verso modelli che li omologano e, decisamente, li rendono meno liberi anche se in apparenza può sembrare il contrario. Curiosamente è il mondo occidentale ad evitare di riappropriarsi di quel “pensiero critico” che pure è nella sua natura storica e a rifiutare la Tradizione, con tutto quel che significa, come stella polare per riorganizzare una comunità di uomini, di nazioni e di Stati che rispondano prioritariamente in termini culturali alle grandi prove del Ventunesimo secolo. Un secolo, come ammoniva André Malraux, che o sarà religioso o non sarà. Ecco, la ripresa e la contestazione può avere un successo soltanto se il sacro tornerà a fare irruzione nella vita dei popoli. Oltre le lusinghe della post-modernità