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Patriottismo e sovranità. Temi antichi al centro della riflessione politica europea

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È uscito, edito da Fergen, nella nuova collana “XXI secolo”, il saggio Sovranità nazionale, sovranità europea (pp. 139, € 12), di Gennaro Malgieri e Silvano Moffa. Si tratta di un libro diviso in due parti il cui intento è quello di offrire un contributo alla reazione degli esiti nefasti della globalizzazione evitando di contrapporre il principio di nazionalità a quello di Europa. È possibile un nazionalismo europeo a fronte delle sfide planetarie che minacciano l’identità culturale, politica ed economica del nostro continente? È su questo interrogativo soprattutto che gli autori si soffermano tentando di dare una risposta. Il volume è corredato dal testo sella Dichiarazione di Parigi redatta da un gruppo di intellettuali conservatori europei, tra i quali Roger Scruton.

Per i due autori, come si legge nella Premessa, “rivendicare la sovranità, almeno per ciò che concerne l’Italia, è quello di ricostituire le membra dello Stato e ricomporre il tessuto nazionale secondo un indirizzo di pensiero fondato sui valori della nostra comunità che non esclude il rapporto ed il confronto con altre comunità .

Soltanto se una sovranità è salda nei suoi principie negli intenti che si propone di perseguire, è possibile immaginare processi di ‘inclusione’, come è stato in un lontano passato, ed il pensiero corre alla Roma antica ed alla visione di Federico II di Hohenstaufen, senza dover rinunciare alla propria identità che va salvaguardata soltanto con la consapevolezza di appartenere ad una tradizione definita e non scalfibile tanto dalla invasività tecnocratica tendente all’instaurazione di un neo-totalitarismo, quanto dal relativismo etico e culturale”.

Dal saggio di Malgieri, “Alla ricerca della sovranità perduta”, pubblichiamo un  estratto dal capitolo “Patriottismo e sovranità”. Il saggio di Moffa è intitolato “Il fondamento identitario e comunitario del sovranismo”.

malgieri moffaNon è necessario scomodare Ernest Renan per convincersi che la nazione è un “plebiscito” di tutti i giorni. Basta avere la consapevolezza che il principio stesso dell’appartenenza a una cultura e a un sistema di valori civili ci fa essere cittadini di una nazione. Sembra, e forse lo è, una banalità, ma dopo la crisi delle ideologie che negavano in radice la nazione come comunità storicamente fondata,  sono  insorte  forme  diverse e probabilmente più subdole che la mettono in discussione, delle quali bisogna necessariamente tenere conto: il mondialismo, il pensiero unico, l’indifferentismo culturale, il relativismo etico.

È   difficile  qualificare  queste  tendenze  come ideologie strutturate; ma è, viceversa, facile riconoscerle  come  “veicoli”  dell’ulteriore  messa in discussione della nazione che apre la strada al rifiuto del riconoscimento delle specificità e, dunque, a un sorta di “totalitarismo morbido” avente la pretesa dell’ineluttabilità dell’omologazione culturale quale fine ultimo della “guerra”  alle  differenze  condotta  soprattutto  dai gruppi di potere finanziario e mediatico. È per questo  che  la  nazione  si  configura  non  come una ripresa degli stilemi del vecchio nazionalismo arroccato attorno ai principi dell’intangibilità dei  “sacri  confini”  e  moralmente  giustificato da una improponibile “volontà di potenza” declinata in imperialismo, ma come un atteggiamento che  trascende  il  particolarismo egoistico  e  afferma  il  diritto  alla  sovranità  per tutti i popoli e tutti gli Stati, a prescindere dall’organizzazione giuridica di cui sono dotati. Per tale motivo, soprattutto, non si giustifica la pretesa di esportare (magari con le armi) la democrazia  “all’occidentale”  in  aree  geografiche dove  popoli  animati  da  altre  culture  non  sono in  grado  di  governarla  e  considerano  chi  intende promuoverla alla stregua di un colonialista. Ritenere,  in  altri  termini,  che  chiunque  e ovunque  debba  ragionare  secondo  i  nostri schemi  mentali,  desiderare  ciò  che  noi  desideriamo, essere insomma come noi o quanto meno  assomigliarci  è  democraticamente  discutibile  oltre  che  offensivo  del  principio  stesso  di nazionalità.

Così come un “crimine” è la dissoluzione delle nazioni che Roger Scruton, il più autorevole ed influente filosofo conservatore contemporaneo, ha denunciato nel magistrale saggio Il bisogno di nazione. Un contributo rilevantissimo alla riscoperta  dell’idea  di  nazione  come  elemento fondante  il  governo  del  popolo  costituzionalmente riconosciuto da coloro che vivono su uno stesso  territorio  e  nutrono  un  attaccamento  al sentimento dell’appartenenza, al di là dei fattori etnico-religiosi  che  contribuiscono  a  falsare  la nozione stessa di nazionalità esaltando piuttosto  il  tribalismo  e  l’intolleranza.  Scruton  sostiene che  le  democrazie  devono  proprio  alla fedeltà nazionale la loro esistenza ed allo Stato che  in  essa  si  riconosce  lo  strumento  giuridico deputato a difendere le libertà personali e la sovranità collettiva. Perciò le istituzioni sovranazionali che  abusano  del  potere  di  delega,  minacciano seriamente l’indipendenza dei popoli e  allo  Stato  nazionale,  che  pure  ha  bisogno  di essere migliorato nelle sue strutture, non v’è  alternativa  a  meno  di  non  voler  diventare  genti prive di autonomia e spodestate delle prerogative storico-territoriali che ne hanno legittimato l’esistenza. A cominciare dal principio di cittadinanza,  “dono  principale  delle  giurisdizioni nazionali”, scaturita dalla relazione tra lo Stato e l’individuo, sulla base del riconoscimento che il secondo mostra nei confronti delle leggi emanate dal primo. È questo il fondamento di un costituzionalismo  repubblicano,  includente  e condizionante allo stesso tempo, che s’ispira alla logica della responsabilità dichiarata dal “noi” e, dunque, ostile all’“io” come imperativo egoistico. Lo  Stato  nazionale  europeo  –  osserva Scruton – emerse quando l’idea di comunità definita partendo da un territorio venne iscritta in sistema di sovranità e di leggi. Dunque, “è vitale al  senso  di  nazione  l’idea  di  un  territorio   comune  nel  quale  ci  siamo  tutti  insediati  e  che tutti abbiamo identificato come la nostra casa”. Per  questo  motivo  “la  fedeltà  nazionale  è  fondata sull’amore per un luogo, per le usanze e le tradizioni  che  sono  state  iscritte  nel  paesaggio e  nel  desiderio  di  proteggere  quelle  cose  belle attraverso leggi comuni e una comune fedeltà”.

Insomma, una suggestiva difesa della nazione in  tempi  in  cui  l’avversione  dello  Stato  nazionale e, più in generale, il rifiuto della stessa idea nazionale  sono  largamente  diffusi  e  riflettono uno stato d’animo che Scruton definisce “oicofobia” cioè la tendenza che in qualsivoglia tipo di  conflitto  si  denigrano  usi,  costumi,  istituzioni,  cultura  “nostri”  ripudiando  così  la  lealtà o la fedeltà nazionale, prendendo sempre e comunque le parti di organismi transnazionali supportandone le direttive, come capita, per esempio, quando si sostengono sempre e comunque le decisioni dell’Unione europea o delle Nazioni Unite. L’appassionata difesa della nazione Scruton la completa con un lucido atto d’accusa allo “Stato mercato” che concepisce il legame tra cittadino ed  istituzioni  come  un  contratto  dal quale  il  primo  si  attende  benefici  in  cambio  di obbedienza. è l’anticamera del totalitarismo moderno. Il trionfo del relativismo culturale applicato alla sfera della politica. Il bisogno della nazione implica coscienza identitaria e cultura dell’appartenenza. Su questi pilastri si reggono comunità capaci di affrontare le minacce del  dispotismo  e dell’anarchia.


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