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Non solo business. Tutte le mosse (e i problemi) della Cina in Medio Oriente

Quando pochi giorni fa i mezzi militari russi sono arrivati nelle basi del nord siriano utilizzate dagli Stati Uniti negli ultimi quattro anni, l’argomento principale utilizzato da tutti gli analisti che hanno sviscerato il senso profondo dietro a quelle immagini è stato il cambio di sfere e ruoli d’influenza nella regione. Man mano che passavano i giorni però, quello che la Casa Bianca descriveva come un ritiro dalle “guerre infinite”, con cui accaparrarsi consensi elettorali, si configurava sempre più in un riassetto, una rimodulazione della presenza siriana e un rafforzamento in altre zone del quadrante. Area che gli Usa non possono e non intendono abbandonare.

Se quei russi che entravano nelle basi Usa segnavano un’iconografia del momento (segnante di un processo in corso e molto voluto da Mosca), c’è infatti un elemento ulteriore che fa supporre che gli americani non smetteranno di svolgere un ruolo centrale nel Medio Oriente in futuro: la penetrazione cinese. La questione ha carattere strategico ed è un capitolo della competizione tra le potenze Washington e Pechino, di questi giorni.

Sono almeno dieci anni che la Cina è diventata un attore sempre più rilevante nel quadrante mediorientale, un coinvolgimento nelle questioni di stabilizzazione e sicurezza giocato in modo per ora in modo discreto e soprattutto distaccato, ma sui cui s’è trovata costretta (e sempre più vi si troverà) a causa dell’aumentare degli investimenti nei Paesi della regione, che  comporta in automatico implicazioni di carattere più politico e meno orientate al business — basti pensare all’incontro di tre mesi fa tra il principe ereditario emiratino e la gerarchia cinese.

Ci sono due ragioni principali dietro all’interessamento cinese all’area. La prima è la diffusione della Belt & Road Initiative (Bri), l’imponente piano geopolitico-infrastrutturale con cui il presidente Xi Jinping intende collegarsi all’Europa in un evidente tentativo di spostare verso Oriente quello che è l’asse transatlantico occidentale; il piano è uno dei simboli di questo primo decennio della presidenza Xi e uno dei grandi progetti di lancio globale per i cinesi, e il Medio Oriente è una fascia geografica la cui inclusione è enormemente interessante (per posizione e potenzialità). Seconda ragione, la necessità di Pechino di accaparrarsi linee di rifornimento energetiche: già dal 2015, la Cina è ufficialmente diventata il più grande Paese importatore al mondo di petrolio e quasi metà delle sue forniture provengono dal Medio Oriente.

Questo secondo argomento, nei mesi scorsi, durante la ‘crisi delle petroliere’ nel Golfo, era stato utilizzato come proxy dal presidente americano Donald Trump, che a fronte di questa situazione chiedeva alla Cina di prendere parte ad attività per assicurare la sicurezza delle rotte lungo il lineamento cruciale di Hormuz (dove si erano verificati alcuni incidenti ai tanker). Tema, la sicurezza, su cui invece come detto per ora Pechino è più restia a farsi coinvolgere, e per questo subisce il pressing statunitense — che in questa fase di realismo chiede ad alleati e rivali di farsi carico delle proprie responsabilità.

Il governo cinese non partecipa, o al massimo si tiene ai margini, delle principali discussioni sulle questioni legate alla sicurezza dell’area. Cerca un distacco utilitaristico, il cui scopo è restare leggeri nei confronti degli attori regionali, così da poter mantenere aperti colloqui e contatti con tutti. E infatti ha relazioni aperte, e spinte, sia con Arabia Saudita ed Emirati (potenze fondamentali) sia con l’Iran (utile nella postura informale anti-occidentale), così come con Israele, i cui porti — come Haifa — diventano di interesse prioritario per aprire ulteriori affacci alla Bri nel Mediterraneo.

Tuttavia, la spinta che la Cina sta dando al suo business con i Paesi mediorientali — dove partecipa con investimenti diretti e in progetti per lo sviluppo — è un fattore che porterà Pechino ad aumentare la propria presenza anche su questioni di ordine superiore, come le politiche securitarie. Questo è un elemento che interessa particolarmente l’allineamento occidentale (Usa e Ue), perché la Cina fornisce a quei regni un modello di sviluppo non democratico sostanzialmente più attraente dei principi di diritti e valori che caratterizzano l’Occidente, per questo potrebbe diventare un riferimento. Un esempio di netta reciprocità: Pechino non ha trattato l’imbarazzante caso Khashoggi, assassinio di un critico scomodo per Riad che secondo la Cia coinvolge direttamente il policy maker del regno Mohammed bin Salman; e i sauditi non affrontano la questione delicatissima dello Xinjiang, dove i cinesi hanno avviato una campagna di rieducazione culturale contro i musulmani locali.

Questo scambio di interessi è un punto di forza per la Cina, che può mediare con quei Paesi armi e tecnologie per la sorveglianza, elementi su cui i governi occidentali sono piuttosto cauti (le mosse che il Congresso americano e alcuni stati europei hanno preso proprio in conseguenza del caso Khashoggi o della guerra Saudita in Yemen ne sono un esempio). “Il modello cinese di capitalismo autoritario affascina già molti regimi mediorientali che vedono la cooperazione con la Cina come un modo per resistere alla pressione occidentale sulle riforme di governo e sul rispetto dei diritti umani in cambio di supporto e investimenti per lo sviluppo”, spiega in un report sul ruolo mediorientale di Pechino lo European Council on Foreign Relations (Ecfr).

La problematica che però incontra la Cina in Medio Oriente è del tutto simile a quella russa. Ossia, né Pechino e né Mosca per il momento hanno intenzione di sostituirsi nel ruolo complessivo — partnership di valore economico e di carattere politico — che gli Stati Uniti hanno impostato guidando il processo occidentale che ha creato la seppur instabile architettura di sicurezza e sviluppo nella regione. Gli Stati mediorientali sarebbero forse propensi a un qualche genere di shift, davanti a un sentimento di disillusione pacato nei confronti dell’Occidente, ma per il momento le due “rival powers” americane non hanno intenzione di prendersi l’onere del quadro generale.

(Foto: Twitter, @MohamedBinZayed)

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