Mentre oltreoceano è ancora viva la memoria del Russiagate del 2016, Facebook – messa in passato sulla graticola per il caso Cambridge Analytica – prova a portarsi avanti col lavoro, lanciando un piano per proteggere le prossime elezioni presidenziali del 2020 dalle fake news.
IL PIANO DI FACEBOOK
Il più celebre e utilizzato social network al mondo (secondo dati di Statista nel secondo trimestre del 2019 contava quasi 2 miliardi e mezzo di utenti attivi mensilmente), dichiara così guerra ai falsi account e a quelli che diffondono notizie in modo strumentale e organizzato, con l’intento di salvaguardare il processo democratico del voto da interferenze straniere e disinformazione.
LE MISURE
“Dal 2016 – si legge sul sito del social network – abbiamo effettuato investimenti significativi per identificare meglio le nuove minacce, chiudere le vulnerabilità e ridurre la diffusione di disinformazione virale e account falsi”. E oggi sono partite “diverse nuove misure per aiutare a proteggere il processo democratico”. Tra queste ci sono iniziative per “combattere le interferenze straniere” e la “lotta contro comportamenti non autentici”, a partire da una “policy aggiornata per la protezione degli account dei candidati, dei funzionari eletti e dei loro team”. Previste anche “etichette più chiare per il controllo dei fatti”; “il divieto di annunci a pagamento che suggeriscono che il voto è inutile” o che consigliano alle persone di non votare. In programma anche “un investimento iniziale di 2 milioni di dollari per supportare progetti di alfabetizzazione mediatica”.
LA RISPOSTA A TWITTER (E AI DUBBI)
Una mossa, quella del colosso di Menlo Park, che a stretto giro dopo la comunicazione di Twitter – un altro dei social utilizzato in campagne disinformative secondo vari report, compresi quelli del Senato Usa sulle interferenze di Mosca – di mettere al bando su scala globale gli spot politici sulla sua piattaforma.
Facebook – che recentemente ha registrato un aumento dei ricavi trimestrali, il terzo di fila – raccoglie gran parte delle sue entrate proprio dalle inserzioni e ha detto di non voler seguire Twitter nella sua scelta. In particolare Mark Zuckerberg ha spiegato che la sua azienda non intende soffocare il dibattito politico, e che la pubblicità politica inciderà per lo 0,5% dei ricavi di Facebook il prossimo anno. Ma, in vista della campagna elettorale in parte già entrata nel vivo, le pressioni nei confronti del social sono destinate a aumentare. E, evidentemente, prima che diventino troppo elevate, il management ha preferito con questo piano anticipare le probabili critiche.
ANCHE IN UK
L’iniziativa si affianca a quella messa in atto nel Regno Unito, dove si voterà il 12 dicembre, in un momento travagliato per la politica nazionale, messa a dura prova dal processo della Brexit (anch’essa, in relazione al referendum che ha decretato l’uscita di Londra dell’Ue, indicata come un passaggio nel quale la disinformazione nel Paese è proliferata). Oltremanica, Rebecca Stimson, responsabile delle politiche pubbliche del Regno Unito di Facebook, ha spiegato che il colosso del Web avrebbe reso le pubblicità politiche più trasparenti grazie a nuove regole. E che per prevenire “interferenze straniere” e “comportamenti non autentici”, il social network fondato da Zuckerberg identifica e chiude “milioni di account falsi ogni giorno, qualche secondo dopo la loro creazione”. Mentre per quanto riguarda la sicurezza, “ci sono al lavoro più di 35mila persone” e in vista del voto è stata riunita “una Task Force elettorale di persone dei nostri team in tutto il Regno Unito, Emea e Stati Uniti”.
I TIMORI DELL’INTELLIGENCE
Difficile sapere sin d’ora se sarà sufficiente, ma negli Usa gli apparati di sicurezza temono che le elezioni dell’anno prossimo – al pari di quelle del 2016 – possano essere utilizzate per diffondere messaggi che minino la fiducia nella democrazia, alimentino divisioni sociali e promuovano specifiche agende distanti da quella americana.
Al contrasto di questa minaccia, ha raccontato Formiche.net, lavora l’Intelligence Community, che consiglia, tra le altre cose, di segnalare indicatori sospetti al Fbi o al Dipartimento dell’Homeland Security, che ha la responsabilità di proteggere le infrastrutture critiche (dunque anche quelle di voto).
Secondo un documento del National Counterintelligence and Security Center, i tentativi stranieri di interferire con le elezioni rientrano in cinque categorie distinte: operazioni informatiche mirate all’infrastruttura elettorale; operazioni informatiche rivolte a partiti politici, campagne e funzionari pubblici; operazioni di influenza segrete per assistere o danneggiare organizzazioni politiche, campagne o funzionari pubblici, operazioni di influenza segrete per influenzare l’opinione pubblica e seminare divisione; coprire gli sforzi per influenzare i politici e i cittadini.
I PERICOLI NEL CYBER SPACE
Quanto agli attori più temuti da Washington, questi possono essere riassunti in quelli che compongono il cosiddetto ‘Asse del Cyber’: Cina, Corea del Nord, Iran e Russia.
Da tempo le autorità americane ripongono maggiore attenzione a queste problematiche in ambito intelligence; uno ‘shift’ già avvenuto nella ‘nuova’ Cia guidata da Gina Haspel, agenzia che dopo essersi concentrata molto negli anni passati sulla minaccia terroristica, è tornata a concentrare uomini e risorse per controllare le mosse di Paesi come Russia.
Se si guarda all’Iran, recentemente è stato un approfondito report di Microsoft a evidenziare i movimenti di hacker vicini a Teheran, che avrebbero già iniziato a colpire almeno un candidato alle prossime elezioni. E poi c’è Pechino. Quando si parla di operazioni d’intelligence che fanno leva sull’uso di informazioni, il pensiero va subito a Mosca, che in questo ambito è nota non solo per la ‘disinformatia’ di sovietica memoria, ma anche per le più recenti accuse americane di aver tentato di influenzare le ultime presidenziali. In realtà, hanno evidenziato in un interessante commento Laura Rosenberger e Zack Cooper – rispettivamente direttore e co-direttore dell’iniziativa Alliance for Securing Democracy portata avanti dal think tank German Marshall Fund of the United States – sarebbe tempo che Washington si focalizzasse in modo sistematico sulle campagne messe in atto da un rivale ben più ingombrante e strategico: la Cina.