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Cosa spiega il massacro nel campus di Kabul. L’analisi di Bertolotti

Un attentato sanguinoso sulla scia di un aumento degli attacchi da parte dei Talebani in Afghanistan. Ora il gruppo si sente più forte, e vuole sfruttare il tavolo interno per spingere le proprie istanze mentre continua le operazioni di pressione sul campo, spiega Bertolotti (StartInsight)

Almeno venti i morti, oltre 40 i feriti: bilancio atroce dell’ultimo attentato a Kabul. A colpire il campus universitario (circostanza che aggrava il bilancio: le vittime sono in gran parte giovani civili), secondo le parole del vicepresidente afghano, Amrullah Saleh, sarebbero stati i Talebani.

Il gruppo armato jihadista sta dialogando con il governo e con gli americani per raggiungere un accordo che per l’amministrazione Trump era visto come utile a spingere la narrazione del ritiro da una di quelle che il presidente statunitense definisce “endless war” e che avrebbe dovuto portare pace in Afghanistan. Ma qualcosa sta andando storto.

“I Talebani hanno raggiunto più che un accordo una stretta di mano con gli Stati Uniti, da cui poi dare il via al dialogo intra-afghano, ma tra i due tavoli negoziali c’è un abisso di sostanza”, spiega a Formiche.net Claudio Bertolotti, già capo sezione della contro-intelligence della Nato in Afghanistan, docente e ricercatore associato presso l’Ispi, direttore di START InSight e autore di “Afghanistan contemporaneo. Dentro la guerra più lunga” (ed. START InSight, 2019).

“Se con gli americani l’accordo era funzionale a garantire il disimpegno statunitense a fronte di una possibilità da parte talebana di aprire al colloquio con il governo – continua Bertolotti – e questo dobbiamo dire che ha avuto successo creando il tavolo negoziale interno, al contrario nel dialogo tra governo e Talebani sono questi ultimi a dettare le regole e imporre le condizioni. Tutto mentre parallelamente portano avanti la pressione sul campo di battaglia: un metodo per far arrivare il governo a cedere sulle loro richieste”.

E gli Usa? Che ruolo hanno in questo confronto intra-afghano, dato che il dialogo è nato sotto la loro spinta? “Gli Stati Uniti non possono fare più nulla, semplicemente perché non vogliono. L’amministrazione Trump non ha nessuna intenzione di aumentare la pressione a supporto delle forze afghane contro gli attacchi talebani. E i Talebani questo lo sanno molto bene, perciò conducono non semplici operazioni di guerriglia, ma azioni in campo aperto. Ossia hanno capito che stanno vincendo, e imporranno con la violenza tutto quello che sul tavolo negoziale li impegnerebbe per troppo tempo”.

Secondo l’esperto, ormai l’offensiva talebana è “incontenibile”, e si sposa con un governo sempre più debole e con la mancanza di capacità operativa delle forze armate – che chiaramente, subendo insuccessi continui, sono sempre più demoralizzate (oggi per uccidere i tre assalitori del campus sono intervenute le unità della missione “Resolute Support” che la Nato ha ancora attiva nel Paese). “Uno scenario amaro: un Afghanistan sempre meno Repubblica democratica e sempre più emirato islamico come lo immaginano i talebani”.

Sebbene nei giorni scorsi i ribelli jihadisti abbiano lanciato attacchi organizzati contro tre capoluoghi, Lashkarga, Faizabad e Kunduz, oggi Zabihullah Mujahid, portavoce dei Talebani, ha inviato un messaggio Whatsapp a diversi giornalisti locali e internazionali precisando che il gruppo non è responsabile dell’azione all’università. Ma i Talebani è difficile che si assumano la responsabilità di attacchi in cui muoiono molti civili.

Nella dichiarazione di Saleh, invece, salta all’occhio anche un’accusa diretta al Pakistan, definito sostenitore dei Talebani. Perché? “L’ex capo del National Directorate of Security del presidente Karzai è sempre stato contro un accordo con i Talebani e ostile al Pakistan. Si dimise (o meglio fu fatto dimettere) proprio a causa della sua posizione anti-pakistana. Non è la prima volta che accusa (e a ragione) il Pakistan per suo supporto diretto ai ribelli jihadisti”, spiega Bertolotti.



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