Skip to main content

L’effetto Biden sulla Turchia: la sposa indosserà qualcosa di vecchio, di nuovo, di prestato, di blu

L’effetto Biden tocca, chiaramente, anche la Turchia. Ankara dà disponibilità al dialogo a Washington, per cercare di limare la tensione che si è accumulata in anni. Ci sono spazi di confronto e apertura, ma gli Usa mandano già messaggi chiari per chiedere trasparenza a Erdogan

L’Atlantic Council ha ultimamente dedicato molta attenzione a uno dei temi caldi per il futuro delle relazioni internazionali statunitensi: l’ottica con cui il presidente Joe Biden guiderà il rapporto con la Turchia. Aspetto centrale nel quadro regionale che va dal Mediterraneo al Medio Oriente; fattore di primario interesse anche per l’Italia, che ha diversi dossier intrecciati con Ankara, emersi anche nella telefonata di venerdì tra il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e il capo di Stato turco, Recep Tayyp Erdogan. Dossier dove la relazione turco-americana influenza e influenzerà anche il rapporto della Turchia con Roma e le dinamiche con cui l’Italia si muoverà rispetto ad Ankara. Tanto dunque vale la pena una panoramica, anche per interesse italiano.

Sul sito emiratino dedicato alla Turchia Ahval News, l’ex Foreign Service Officer americano Edward Stafford, tira in ballo il vecchio detto secondo cui una sposa dovrebbe indossare “qualcosa di vecchio, qualcosa di nuovo, qualcosa di prestato, qualcosa di blu”, per giocare “un’utile metafora” sulle policy americane nei confronti della Turchia dopo l’Inauguration del 20 gennaio. Dato che il Blu è il colore dei democratici, il vecchio secondo Stafford è la dimensione geografica, che detta – come geopolitica vuole – la strategia con cui gli americani hanno sempre guardato alla Turchia, avamposto in quella macroregione che gli Usa chiamano Mena. Cuore dell’integrazione nella Nato, la geografia turca è un utile contenimento per la Russia, e adesso – visto le ambizioni in quelle aree contigue e sovrapposte – della Cina.

Il nuovo, sono la proiezione economica con cui la Turchia si è lanciata negli ultimi anni oltre il proprio areale classico (nonostante le difficoltà); la cooperazione tra Washington e Ankara in campi di alto livello, come quello del cambiamento climatico (che con Biden tornerà importante) e quello della lotta alla pandemia (che il governo turco ha già usato durante la prima ondata per dimostrarsi presente agli occhi della Comunità internazionale); l’attenzione ai diritti umani, che con Biden sarà superiore all’amministrazione precedente. E di prestato? Secondo Stafford c’è il successo degli Accordi di Abramo e la postura severa presa da Washington con le sanzioni sugli S-400: in sostanza, Biden affronta un contesto diverso rispetto a quando era vicepresidente dell’amministrazione Obama, con una Turchia molto più proattiva, ed esistono delle circostanze fisse e alcuni elementi nelle policy della presidenza Trump da mantenere.

Il ministro degli Esteri turco ha rinnovato in questi giorni la sua offerta di formare un gruppo di lavoro congiunto con gli Stati Uniti per esaminare gli aspetti tecnici dell’acquisizione dei sistemi di difesa russi S-400: “Mostreremo sinceri sforzi per migliorare i nostri legami. Ci aspettiamo lo stesso approccio dall’amministrazione Biden”, ha affermato il turco aggiungendo “siamo pronti”. Che l’effetto Biden possa allargarsi alla Turchia era un fattore del tutto prevedibile.

La Turchia fa parte di quel gruppo di paesi (tanti, se non tutti) che hanno interesse nel posizionarsi in modo più positivo nei confronti degli Stati Uniti e nelle attività che potrebbero essere percepite dall’amministrazione Biden in modo negativo. Il suo ingresso in office crea un rimodernamento di certe posture in funzione più compiacente verso gli Usa. Allo stesso tempo Washington, nel caso della Turchia, ha necessità di trovare nel Medio Oriente una forma di stabilità che possa portarlo a concentrarsi, almeno nel periodo più stretto, a questioni interne come la crisi economica prodotta dalla pandemia, o al macro-tema della competizione con la Cina – in cui Ankara deve essere della partita dal lato americano.

La disponibilità della Turchia a un qualche dialogo, si allarga e sovrappone ad altre situazioni, per esempio il confronto a cavallo del Mediterraneo con la Francia: nelle stesse ore in cui comunicava l’apertura sugli S-400 – dossier delicatissimo, con cui la Turchia s’è esposta alla Russia e ha sostanzialmente creato una falla di approvvigionamento che ha valore politico per la Nato – sempre il ministro degli Esteri di Ankara faceva sapere che il presidente francese Emmanuel Macron ha inviato una lettera cordiale all’omologo Erdogan con l’intento di avviare una normalizzazione dei rapporti. “Ci incontreremo con piacere. Parleremo innanzitutto di videoconferenza e attraverso conversazioni telefoniche”, ha detto il capo della diplomazia turca.

“Dal punto di vista geostrategico, gli Stati Uniti e la Turchia hanno un approccio comune”, ha spiegato in un panel dell’Atlantic Council James Jeffrey, fino a novembre 2020 inviato speciale degli Usa per la Coalizione globale contro lo Stato islamico, ex ambasciatore in Iraq e Turchia, ed ex delegato dell’amministrazione Obama per crisi siriana. Jeffery interpreta il pensiero dell’AC secondo cui “nonostante i titoli che attirano la maggior parte dell’attenzione nei commenti sulle relazioni bilaterali, gli Stati Uniti e la Turchia condividono anche interessi chiave con il potenziale per una maggiore collaborazione”.

La prospettiva di legami Nato e transatlantici più cordiali – sotto l’effetto Biden – dovrebbe rassicurare anche la Turchia, in sostanza. Resta da vedere come la Turchia si inserisca nella più ampia strategia dell’amministrazione statunitense entrante riguardo all’impegno transatlantico anche con partner come l’Unione europea e il Regno Unito (ma non è casuale l’accordo tra Londra e Ankara). E il processo non sarà gratis.

La scelta di Biden di nominare Brett McGurk , che ha preceduto Jeffrey in Siria e contro l’Is, alla guida del dipartimento Medio Oriente all’interno del Consiglio di Sicurezza nazionale ha già messo in allerta il governo Erdogan. McGurk è visto molto severo con la Turchia, ed è stato lui a costruire l’alleanza tra le forze speciali statunitense che combattevano i baghdadisti e i curdi siriani – che la Turchia considera terroristi (estensione siriana del PKK). La mossa è considerata una di quelle che ha avviato il deterioramento dei rapporti tra Washington e Ankara, che si è sentita tradita dalla partnership americana.

McGurk sarà responsabile del coordinamento delle politiche statunitensi non solo in Siria, ma anche in Iran, Iraq e Libia, tutte cose importanti per la Turchia. La sua scelta è un messaggio a Erdogan: c’è spazio per la normalizzazione, ma gli Stati Uniti non allenteranno senza un atteggiamento trasparente da parte della Turchia, e gli Usa chiuderanno più difficilmente gli occhi come successo proprio con i curdi siriani.



×

Iscriviti alla newsletter