Il conflitto in Etiopia è a un punto critico. Il rischio per l’Italia è che le violenze dilaghino a livello regionale: attenzione all’Afar e dunque a Gibuti
Gli appelli internazionali per raggiungere una soluzione di cessate il fuoco in Etiopia sono cresciuti negli ultimi tre giorni, mentre le forze del Tigray People’s Liberation Front (Tplf) e i loro alleati hanno esercitato più pressione sulle aree centrali del Paese e il primo ministro Abiy Ahmed prepara la difesa e una controffensiva che potrebbe avere esiti umanitari devastanti – “li seppelliremo nel sangue”, ha commentato l’ex premio Nobel per la Pace a proposito dell’avanzata dei ribelli.
Il Tplf è ora a soli 160 chilometri dalla capitale Addis Abeba, pronto a combattere le forze governative fino alla capitale. L’Esercito di Liberazione dell’Oromo (Ola), un gruppo alleato del Tplf in opposizione al governo centrale, ha affermato di essere arrivato a 30 chilometri dalla città, ma i report sul terreno non hanno supportato l’affermazione: sul conflitto grava il peso della disinformazione anche perché il governo ha tagliato quasi completamente i collegamenti internet.
L’Ola, il Tplf e diversi altri gruppi di resistenza a base etnica hanno annunciato formalmente un’alleanza militare e politica per “stabilire un accordo transitorio in Etiopia”. Ad Addis Abeba, le perquisizioni casa per casa sono aumentate mentre il governo rastrella i residenti maschi di etnia tigrina, sollevando il timore di una violenta reazione contro il gruppo etnico, indipendentemente dalla loro fedeltà politica.
Mentre le tensioni aumentano, la Comunità internazionale sta invitando alla calma, anche perché la crisi umanitaria è già aperta. Jeffrey Feltman, l’inviato degli Stati Uniti per il Corno d’Africa, è arrivato in Etiopia giovedì per colloqui con Abiy volti a garantire un cessate il fuoco. Mentre Feltman prosegue i contatti con l’Etiopia e mentre gli Usa pressano i partner regionali per trovare una via negoziale, ai cittadini statunitensi è stato consigliato di andarsene dal paese. Giovedì, anche il personale dell’ambasciata degli Stati Uniti ha ricevuto l’autorizzazione dal Dipartimento di Stato per lasciare il territorio etiope.
Come ha rivelato Foreign Policy, Washington ha messo in azione una task force speciale (diplomatica e militare) per gestire la situazione. Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha già minacciato di tagliare l’accesso commerciale preferenziale dell’Etiopia per spingere il governo di Abiy a negoziare, e potrebbe andare oltre con informazioni che indicano che presto imporrà sanzioni basate su un ordine esecutivo di settembre: l’ordine individua sia il Tplf che il governo etiope come potenziali obiettivi.
In un segno che Abiy potrebbe non essere interessato alla pace a breve, l’Etiopia sembra essere in contatto con la Turchia per accelerare l’acquisto di droni, modelli relativamente economici che hanno migliore capacità ed efficacia dei modelli cinesi e iraniani già in dotazione dell’esercito di Addis Abeba. Eventuali trasferimenti di armi potrebbero spingere ancora oltre i combattimenti.
Anche il presidente keniota Uhuru Kenyatta ha espresso la sua preoccupazione, chiedendo la fine degli scontri. Il rischio di un’allargamento regionale del conflitto è evidente. E se Nairobi è preoccupata dal sud, gli sviluppi rischiano di coinvolgere a nord la regione dell’Afar andando a toccare Gibuti. Gli equilibri politici dell’area sono instabili, istanze secessioniste infiammano alcuni movimenti locali in un paese in cui la divisione etnica rischia di esplodere (le divisioni tra la maggioranza etnica somala del clan Issa e la minoranza etnica afar sono tese e spesso sfociate in violenze).
Quello che si potrebbe produrre è innanzitutto il blocco delle vie di trasporto terrestri, aumentando la congestione di merci e allo stesso tempo producendo una crisi connessa alla paralisi del mercato etiopico. Il rischio è l’impatto di situazioni come queste sulla sfera socio-economica di Gibuti. La creazione di nuove tensioni potrebbe sovrapporsi a quelle che lacerano la società del Paese. È uno degli elementi da tenere in considerazione anche per Roma. Gibuti è l’ancora (militare) della strategia italiana sul Corno d’Africa, ospitando la Bmis “Amedeo Guillet”.
Si tratta di un nodo logistico situato su un crocevia strategico per le linee di comunicazione marittime che dal Mediterraneo sono dirette, attraverso il Canale di Suez, verso il Golfo Persico, il Sud Est asiatico, il Sudafrica e viceversa. La sommatoria di questi effetti, insieme alla creazione di un’area di crisi vasta tra Etiopia, Eritrea, Sudan, Somalia (che si allarga poi verso il Sahel), tutti ambiti della proiezione politica internazionale italiana, fa del conflitto in corso un interesse nazionale per l’Italia.
Interesse ribadito anche durante un recente incontro a Washington del presidente della Camera, Roberto Fico: come ha raccontato Gabriele Carrer su queste colonne, gli Usa vedono nell’Italia un interlocutore “fidato” per gestire certe pratiche – che intendono sempre più affidare agli alleati.