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Cosa c’è dietro il dialogo tra Iran e Arabia Saudita

Il dialogo tra Iran e Arabia Saudita (che passa dallo Yemen) è un fattore di forte interesse per la regione mediorientale e in generale per dinamiche globali come quelle adesso centrali del mercato energetico

C’è una fase interessante attorno all’Iran, che rappresenta a sua volta evoluzioni in corso in Medio Oriente — regione che ha riacquisito centralità anche a causa della partita energetica che si è creata dopo lo scombussolamento del mercato indotto dall’invasione russa dell’Ucraina.

Mentre pare che i Pasdaran stiano provvedendo ai rinforzi militari russi tramite le milizie sciite, e gli Strati Uniti hanno creato una nuova task force marittima per controllare i mari attorno allo Yemen (solcati dai traffici di armi che rinforzano i ribelli Houthi, alleati iraniani perché nemici sauditi ed emiratini), procedono forme di contatto diplomatico.

Funzionari da Teheran e Riad si incontreranno giovedì 21 aprile per riprendere i colloqui diplomatici che fino a una dozzina di mesi fa sembravano impossibili. Dopo una pausa di sette mesi, gli alti funzionari della sicurezza dei due Paesi poli della rivalità sunniti-sciiti e delle dinamiche geopolitiche regionali, torneranno a parlarsi in Iraq nel quinto round di questo genere di incontri.

Chi è informato sull’organizzazione della riunione fa sapere che è prevista una sessione “di 3 o 4 ore, che si terrà nella stessa sede del precedente round di colloqui”, a Baghdad. L’Iran invierà un rappresentante della sua “istituzione di sicurezza nazionale la cui partecipazione è approvata dalla più alta carica del Paese”.

Una fonte diplomatica araba ha detto ad Amwaj, media specializzato sul Medio Oriente, che i funzionari iraniani e sauditi hanno concordato di stabilire un meccanismo per una soluzione sostenibile a lungo termine nello Yemen. Ossia intendono affrontare insieme uno dei principali problemi della sicurezza regionale in un momento in cui è in atto un cessate il fuoco negoziale.

Da sette anni in Yemen si combatte una guerra tra gli Houthi — un gruppo di ribelli separatisti del nord del Paese che ora controlla ampie fette di territorio — e le autorità centrali, che hanno ricevuto assistenza militare attraverso il coinvolgimento saudita. Riad si è messo alla guida di una coalizione di nazioni sunnite che veniva raccontata come un test operativo per una futura “Nato Araba”, ma che invece si è rivelata poco efficace. I ribelli yemeniti hanno colmato il gap tecnico e tecnologico grazie all’assistenza fornita dall’Iran, che tramite i Pasdaran ha fornito armi, componentistica militare e know how adeguato.

Gli Houthi ormai sono una realtà che minaccia le capitali del Golfo, ne mina la stabilità e fornisce all’Iran un vettore nel confronto geopolitico. Dopo anni di scontro — che ha prodotto migliaia di morti e un’enorme crisi umanitaria in uno dei Paesi più poveri del mondo — ora si intravede uno spiraglio di dialogo. Anche perché i sauditi sembrano interessati a convincere l’ex presidente yemenita a lasciare spazio per compromessi.

Quella in Yemen è una guerra che ha sempre ricevuto poco clamore mediatico, quasi sconosciuta a molti dei cittadini occidentali, mentre ha una sua centralità strategica sia perché è in questo momento il principale punto di frizione tra il mondo del Golfo (con cui Usa e Ue cooperano) e la sfera di influenza dell’Iran (con cui la cooperazione potrebbe ripartire a breve); sia perché si svolge in un ambiente geopolitico delicato.

Gli Houthi e la colazione saudita (che comprende diversi Paesi tra cui l’Egitto, il Bahrein e in modo più sfumato gli Emirati Arabi, e che ha ricevuto assistenza da americani ed europei) combattono nella Penisola Arabica, di fronte al Corno d’Africa, in un’area fondamentale per il commercio marittimo che risale ed esce dal Mar Rosso — ossia che unisce Europa e Asia, Occidente e Oriente.

Questo avvicinamento apparente sullo Yemen potrebbe portarsi dietro una serie di aggiustamenti, tra cui il principale potrebbe essere il riavvio del Jcpoa. L’accordo sul congelamento del programma nucleare iraniano era stato messo in stato comatoso dall’uscita unilaterale voluta dall’amministrazione Trump. Una scelta funzionale a compiacere gli alleati del Golfo e Israele, che l’attuale Casa Bianca ha intenzione di invertire — ma sta procedendo senza fretta e senza concessioni.

Arabia Saudita, Emirati e Israele (che hanno trovato una serie di coordinamenti più o meno formali grazie agli Accordi di Abramo) continuano a essere contrari all’intesa con Teheran, in quanto temono che l’eliminazione delle sanzioni che ne conseguirà potrebbe aprire all’Iran maggiori introiti e maggiori possibilità di investire questi in attività di influenza regionale. La guerra yemenita e il Jcpoa sono inoltre tra le ragioni dell’attuale crisi di rapporti tra Riad (Abu Dhabi) e Washington. Ma il dialogo diretto e una forma di intesa — se ci sarà — sullo Yemen potrebbero essere un fattore più rassicurante per le monarchie del Golfo (in parte molto minore Israele).

L’Iran e le cinque potenze che compongono il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite più l’Ue stanno da mesi negoziando una soluzione per riattivare il Jcpoa. La riattivazione significa la sospensione del regime sanzionatorio che gli Stati Uniti hanno riattivato dopo l’uscita, concordemente al rientro iraniano nella compliance dell’intesa.

Teheran accusa Washington di rallentare il negoziato per proprio interesse, mentre apprezza pubblicamente il lavoro dell’Ue, svolto attraverso Enrique Mora (vice segretario generale dell’Eeas e capo negoziatore al Jcpoa, dove cura i contatti per staffetta tra le delegazioni americana e iraniana).

Arrivare a un’intesa è un interesse comune — e in quanto tale ognuno degli attori coinvolti ha delle proprie priorità — che tocca il mondo energetico. L’Iran potrebbe espandere la propria produzione oltre i 5 milioni di barili di greggio giornalieri, e questo significa un’iniezione di materia prima importante in un mercato che, almeno per l’Ue, sta cercando di sganciarsi dalla dipendenza russa — sebbene questo possa comportare agganciarsi a realtà non meno critiche di Mosca.



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