Gli Stati Uniti sanno di avere uno spazio di manovra nelle tensioni armate tra Baku e Erevan. Come il lavoro del segretario Blinken dimostra, puntano alla pace — e agli equilibri con Turchia, Russia e Iran
Il segretario di Stato statunitense, Antony Blinken, ha ospitato il ministro degli Esteri armeno, Ararat Mirzoyan, e il collega azero, Jeyhun Bayramov, per il primo colloquio diretto dopo i recenti scontri che hanno riacceso le tensioni (mai sopite) in Nagorno-Karabakh.
L’ultimo round di battaglie ha portato alla morte di qualche dozzina di soldati armeni, in combattimenti che ormai vanno evidentemente oltre la schermaglia di frontiera. La tregua (instabile) è stata prima mediata dai russi, poi garantita dagli Stati Uniti e nonostante questo rotta nel giro di poche ore sebbene con scontri saltuari — ed entrambe le parti che si accusano a vicenda per le responsabilità di chi ha sparato il primo colpo.
Blinken ha espresso le proprie condoglianze per le vittime e ha sottolineato la necessità di prevenire ulteriori ostilità, ribadendo l’importanza di tornare al processo di pace. Sono stati discusse “le prossime tappe”, spiega una nota del dipartimento di Stato, che aggiunge come Washington abbia incoraggiato le parti a incontrarsi nuovamente prima della fine del mese. Un lavoro di contatto curato dall’inviato speciale per i negoziati in Caucaso, l’ambasciatore Philip Reeker.
La situazione è molto delicata perché coinvolge diversi attori esterni. Oltre alla Russia, spostata per effetto di un’alleanza sul fronte armeno, c’è l’Iran che condivide relazioni sia con Erevan (principalmente) che con Baku (cercando interessi nel Mar Caspio). E poi la Turchia, unita dalla fratellanza turcofona e culturale (secondo il concetto “nazione con due stati”) con gli azeri e player coinvolto anche militarmente nel conflitto.
Nei giorni scorsi gli Stati Uniti hanno preso una posizione particolare riguardo alla crisi. I Democratici del Congresso hanno espresso vicinanza all’Armenia, criticando l’autoritarismo dell’azero Ilham Aliyev. La Speaker Nancy Pelosi è andata in visita nella capitale armena, dove ha “condannato a nome del Congresso” gli attacchi azeri che ha definito “illegali”.
Ossia, Pelosi ha spostato il ruolo statunitense più verso un lato che teoricamente è quello più distante dagli Stati Uniti — per l’alleanza armena con la Russia, per la vicinanza con di Yerevan con Teheran, perché dall’altro lato c’è la Turchia (alleato Nato americano). Questa deviazione è frutto sia della politica ideologica dei Dem (che hanno elevato i valori democratici a vettore delle relazioni internazionali), sia di un’intensa attività di lobbying condotta dal governo armeno a Capitol Hill e tra i gangli degli apparati statunitensi grazie all’influente diaspora statunitense.
L’incontro facilitato dal dipartimento di Stato tra i due ministri degli Esteri è una forma di riequilibrio su una linea più classica (dopo che lo sbilanciamento si era portato dietro critiche da Baku e Ankara). L’attività di Pelosi, che sta chiudendo la sua eccezionale carriera congressuale (e forse avviandone una diplomatica ), è del tutto analoga a quella vista nel viaggio a Taiwan, quando la Casa Bianca non aveva completamente avallato la sua visita. Ma non poteva opporvisi per via della separazione dei poteri, e forse perché informalmente la riteneva utile. Come è possibile in questo caso.
Al di là delle posizioni pubbliche, la volontà di farsi coinvolgere da parte di Washington può infatti seguire due direttrici. La prima riguarda l’evitare che l’Azerbaigian, che sa di essere militarmente superiore, raggiunga con le armi i suoi obiettivi (ossia la sovranità sul Nagorno-Karabakh e l’apertura del corridoio di Zangezur, che consentirebbe la connessione diretta tra il territorio azero e la Repubblica autonoma del Nahçıvan, exclave armena al confine turco). Questo significherebbe che Baku sarebbe egemone nell’area, e che per riflesso lo diventerebbe anche Ankara.
Evenienza che gli americani voglio evitare per non accrescere l’ego geopolitico turco (che potrebbe portare ad avventurismi anche altrove). La seconda direttrice è collegata a un discorso simile di sfere di influenza: porsi sul lato di Yerevan significa provare a fare un modo che si avvii un qualche genere di processo di sganciamento (parziale intanto) dell’Armenia dalla Russia. E dunque indebolire Mosca in un’area, il Caucaso, dove da sempre ha avuto un ruolo centrale (e di farlo chiaramente senza favorire in modo eccessivo la Turchia o l’Iran, e tanto meno la Cina, che nell’area è ben presente). Non è impossibile, lo racconta il caso del Kazakistan.
Va aggiunto che, come ha detto il primo ministro armeno, Nikol Pashinyan, durante un discorso parlamentare nella notte tra il 13 e il 14 settembre, il rischio che in ballo ci finisca l’integrità territoriale dell’Armenia. E Washington non può non opporsi a un processo di conquista militare azero mentre combatte un qualcosa di simile russo in Ucraina.
Pashinyan si è mostrato pronto alla mediazione — sostanzialmente a una resa diplomatica per evitarne una più cocente militare. Questa apertura è ben vista a Washington, che potrebbe aiutare gli armeni a chiudere un negoziato più favorevole (gli Stati Uniti hanno capacità di giocare un peso diplomatico tale da scoraggiare eccessive pretese da Baku quanto da Ankara). C’è però un altro argomento rischioso, che riguarda la reazione interna all’Armenia: proteste di piazza contro una resa anticipata ci sono già state, e potrebbe crearsi una destabilizzazione del Paese. E poi occorrerà capire come deciderà di posizionarsi la Russia.