Il governo di Quito è riuscito a trovare l’accordo con le banche del Dragone, che negli anni hanno concesso al Paese sudamericano 18 miliardi di dollari, per la ristrutturazione dei finanziamenti legati alle forniture di petrolio. Il rischio era di finire come alcuni Stati africani, costretti a cedere aziende e infrastrutture chiave per pagare le rate
L’iceberg era proprio lì, a pochi centinaia di metri davanti alla prua, pronto ad affondare la nave Ecuador. E invece no, all’ultimo il Paese si è salvato, se così si può dire. Sì, perché anche lo Stato sudamericano dall’economia fragile quanto un ramoscello è finito negli anni nella rete dei prestiti-trappola cinesi, di cui questa testata ha svelato la natura, raccontandone i devastanti effetti sulle economie in via di sviluppo, africane in testa.
Fiumi di denaro dalle banche del Dragone, ad oggi il primo prestatore globale verso i Paesi ancora troppo arretrati, ma pronti a trasformarsi in un cappio intorno al collo, al primo segnale di insolvenza da parte del destinatario. Porti, strade, ponti, intere imprese fagocitate da Pechino al posto del rimborso delle rate. Il governo di Quito è riuscito a evitare il baratro, risparmiandosi l’umiliazione di vedere le proprie industrie fatte a pezzi, annunciando di aver raggiunto un accordo di ristrutturazione per la riduzione del debito con le banche cinesi del valore di 1,4 miliardi di dollari fino al 2025,
L’esecutivo del presidente di centrodestra Guillermo Lasso ha infatti dichiarato di aver raggiunto accordi importanti e sostanziali con la China Development Bank e la Export-Import Bank of China (Eximbank) per un valore rispettivamente di 1,4 e 1,8 miliardi di dollari. Accordi che nei fatti prolungheranno la scadenza dei prestiti e ridurranno i tassi di interesse e l’ammortamento. Qualora non fosse stato possibile rinegoziare il debito, sarebbero automaticamente scattate tutte quelle clausole che consentono a Pechino e le sue banche di azzannare gli asset di un Paese indebitato con il Dragone.
La trattativa è comunque durata mesi e l’esito non era certamente scontato. Il governo ecuadoriano ha infatti aperto i negoziati lo scorso febbraio, dopo una stagione contraddistinta dalla sottoscrizioni di grandi prestiti con la Cina, per mano dell’ex presidente Rafael Correa, per un totale di 18 miliardi di dollari. Lo stesso Lasso, in occasione dei Giochi invernali di Pechino, era volato in Cina per aprire formalmente il confronto con le banche cinesi.
Sul tavolo, come dichiarato da Lasso durante un evento pubblico lo scorso 25 gennaio, pochi giorni prima della sua visita in Cina, c’era la “grande sfida” di rinegoziare il debito di Quito con la Cina. “Cercheremo le condizioni migliori e soprattutto di svincolare il petrolio dal pagamento del debito con la Cina, in modo che il greggio sia liberamente disponibile per il governo ecuadoriano. Qui sta la grande sfida di questo negoziato”, aveva detto Lasso.
I debiti con Pechino, infatti, sono in gran parte legati a contratti di fornitura del petrolio: tra gli altri, si segnalano quelli che impegnano Quito a fornire a Petrochina una media di 113.260 barili al giorno nel 2022, e 8.438 a Unipec (entrambe compagnie statali cinesi). Operazioni di vendita anticipata per le quali il greggio viene di fatto sovente venduto sotto costo, senza contare che il tasso di interesse richiesto dalla Cina è mediamente più alto di quello oggi offerto da altri enti. In assenza di un accordo, sarebbe andata molto peggio.