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I soldi non bastano per rispondere all’Ira. La versione di Maffè

Colloquio con l’economista della Bocconi e saggista, a pochi giorni dal Consiglio europeo chiamato a decidere sul piano di sussidi alternativo a quello americano. La proposta italiana per degli aiuti di Stato comunitari e coordinati è logica e sensata, ma senza sapere dove e quanto spendere non si raggiungerà l’obiettivo di attrarre le imprese

Si fa presto a mettere tanti soldi dentro un calderone, per poi distribuire aiuti e sussidi alle imprese, nel tentativo di rispondere alla sfida americana dell’Inflation reduction act. Ma se manca un manuale d’uso, istruzioni su chi deve finanziare cosa, allora la corsa per la competitività è persa in partenza.

La certezza, spiega in questo colloquio con Formiche.net l’economista della Bocconi e saggista Carlo Alberto Carnevale Maffè, è che l’Ue non può certo starsene a girare i pollici mentre gli Usa diventano una gigantesca calamita per gli investimenti. L’incognita, quando mancano pochi giorni all’9 febbraio, giorno del Consiglio europeo chiamato ad approvare un piano industriale comunitario (qui l’articolo con tutti i dettagli) che possa controbilanciare la mossa americana, è se davvero arginare l’appeal degli Stati Uniti sarà possibile.

“L’Europa deve essere preoccupata, il piano americano è una forma di sussidio di Stato alle multinazionali, nel momento in cui devono decidere dove allocare i propri siti. E se non si va dove porta il cuore, sicuramente si va dove porta il portafoglio. L’Irlanda, che è il Paese che cresce di più in Europa, deve tale crescita ai capitali e le tecnologie che è in grado di attrarre. Per questo il maxi-sussidio statunitense alle imprese, soprattutto green, movimenterà parecchi capitali, verosimilmente drenandoli dall’Ue”, premette Maffè.

“Secondo punto”, prosegue l’economista, “con questi sussidi gli Usa spiazzano la stessa Europa, la regione che negli ultimi dieci anni ha più legiferato in materia di green economy e transizione. Dunque l’Ue rischia di perdere tale vantaggio competitivo, inteso come essere l’alfiere della tecnologia verde e sempre per mano degli Stati Uniti e questa è una minaccia concreta. Ora, tutto ciò premesso, se all’inizia americana ciascuno Stato europeo risponde a modo suo, sussidiando l’economia con mezzi propri, ecco che si va incontro a una nuova frammentazione dell’economia: disferemmo di notte quello che abbiamo costruito di giorno, oltre a mettere l’Italia nei guai, visto che Germania e Olanda potrebbero mettere molti più soldi di noi”.

A questo punto la soluzione di un fondo unico alimentato con emissione di debito comunitario, sulla falsariga del Recovery Fund, sembra essere la strada maestra. “La proposta di un veicolo unico, che l’Italia ha sostenuto, è corretta e sensata, perché va in senso federalista. Ma non basta una politica sugli aiuti di Stato regolata centralmente, perché serve una altrettanto efficace politica industriale: un fondo comune ma che produca beni federali. In questo dovremmo copiare gli americani, dove l’allocazione dei fondi è centralizzata e lo stesso dobbiamo fare qui, nel Vecchio Continente. Come a dire, mettiamoci dentro i soldi, ma con ben chiaro in mente a chi darli e perché. Insomma, una politica industriale che segua la costituzione del fondo, altrimenti il gioco non riesce. Ripeto, fare un veicolo comune è facile, poi serve però centralizzare gli investimenti: non possiamo arrivare ad avere 27 sistemi d’arma diversi”.


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