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Chip e clima, le mosse (transatlantiche) dell’Ue per l’industria

Ue

Doppia svolta sulla doppia transizione (ecologica e digitale) che sta disegnando l’industria europea dei prossimi decenni. Da una parte aumenta il costo dell’inquinare ma si rinforza la protezione contro il dumping ambientale. Dall’altra è confermato il maxi-fondo da 43 miliardi di euro per produrre più chip. Il tutto in raccordo con gli States

Martedì le istituzioni europee hanno dato due impulsi potenti alla doppia transizione – ecologica e digitale – che sta disegnando il futuro industriale europeo. Il Parlamento ha approvato un ampio pacchetto di riforme in materia di cambiamenti climatici, tra cui misure che contribuiranno sia ad aumentare il costo di inquinare in Ue, sia a proteggere i produttori Ue dal dumping di Paesi terzi. Nelle stesse ore, la presidenza svedese del Consiglio Ue ha annunciato l’approvazione del Chips Act, il piano per rivitalizzare l’industria dei semiconduttori europea.

CO2, ETS, CBAM: LE MISURE PER IL CLIMA

Il pacchetto di riforme approvato dal Parlamento Ue a larga maggioranza era già stato concordato lo scorso anno. L’obiettivo finale è ambizioso: ridurre le emissioni dei settori più inquinanti del 62%, rispetto ai livelli del 2005, entro il 2030. Si tratta di un aumento rispetto al traguardo precedente, fissato al 43%. Il piano più generalista Fit for 55 prevede di abbattere il 55% delle emissioni complessive entro il 2030 ma si rifà a un metro di misura più severo, ossia i livelli (inferiori) del 1990.

Basandosi sui livelli di emissioni del 2005, l’Ue si è allineata al benchmark degli Stati Uniti: un segnale evidente della convergenza tra Bruxelles e Washington in materia di clima. Anche perché il punto centrale del pacchetto approvato dal Parlamento è il meccanismo di aggiustamento della CO2 alla frontiera, o Cbam, una soluzione che anni fa era tanto invisa quanto impensabile negli States. Oggi, grazie all’Inflation Reduction Act, anche gli Usa hanno un cronoprogramma ambizioso per decarbonizzare, cosa che potrebbe rendere meno doloroso per le industrie Usa esportare verso l’Ue.

Tutto si gioca sul mercato dei permessi di emissione europei, detto Ets. In sostanza, il nuovo pacchetto contiene un piano unico al mondo per tassare tramite la Cbam i beni importati ad alta intensità di CO2, come acciaio, cemento, alluminio, fertilizzanti, elettricità e idrogeno, a partire dal 2026. L’imposta ha lo scopo di evitare che le industrie europee, soggette a standard ambientali più rigidi degli altri Paesi, siano svantaggiate: gli importatori dovranno adeguarsi o pagare la differenza di prezzo che comporta la produzione più green.

Il pacchetto decreta anche la fine dei permessi gratuiti per le fabbriche europee entro il 2034. In più le emissioni “tassabili” comprando i permessi si allargano anche a quelle del trasporto marittimo a partire dal 2024 e quelle dei combustibili utilizzati nelle automobili e negli edifici (per il riscaldamento) nel 2027. È previsto anche un fondo da 87 miliardi di euro per sostenere i consumatori colpiti dai costi, probabilmente finanziato con la vendita dei permessi Ets, che oggi viaggiano attorno ai 94 euro per tonnellata di CO2. Ora manca solo l’approvazione finale dei Paesi europei.

UN FUTURO LASTRICATO DI CHIP

L’altra grande (e prevista) novità è arrivata sul fronte dei semiconduttori. Il Chips Act, il piano europeo per aumentare la produzione autoctona di microchip, è stato approvato martedì dalla presidenza svedese del Consiglio Ue dopo un accordo tra Parlamento Consiglio e Commissione. Oggi l’Ue ha una quota del 9% nella catena di valore globale dei semiconduttori, tasselli essenziali per la transizione digitale; l’obiettivo è salire al 20% entro il 2030.

La difficoltà sta nella competizione serrata del settore, unita a un’Ue storicamente anemica in fatto di sviluppo di tecnologie informatiche – tranne poche, fulgide eccezioni – rispetto ai grandi rivali come Cina e Usa, entrambi impegnati a versare centinaia di miliardi nelle rispettive industrie. Per ritagliarsi il proprio spazio, l’Ue non può non ricorrere agli aiuti di Stato, che a sua volta ha richiesto a tutti i Paesi europei (rigoristi inclusi) di accettare la primazia dell’autonomia strategica, almeno per quanto riguarda i settori più delicati, rispetto alle logiche mercantilistiche della globalizzazione.

In parole povere, l’accordo mette sul piatto 43 miliardi di euro e spiana la strada a un aumento delle sovvenzioni. Tra le misure figurano l’allentamento delle regole per consentire un maggior numero di sussidi governativi per gli impianti di chip avanzati, un fondo per la ricerca e lo sviluppo nel settore da 3,3 miliardi, e strumenti per monitorare le potenziali carenze di approvvigionamento (per non farsi travolgere da un’emergenza microchip come quella che tanto ha fatto male in pandemia).

Produttori come l’italo-francese STMicroelectronics e le americane Intel e GlobalFoundries si sono già impegnati a costruire impianti da svariati miliardi di euro in Germania e Francia. Loro sono i più probabili destinatari di gran parte di quei 43 miliardi, perché la partita globale dei semiconduttori (industria capital intensive per eccellenza) si può giocare solo con pezzi da novanta. Persino Tsmc, la taiwanese leader nel settore dei chip avanzati, starebbe valutando un investimento in Europa. E anche in questi movimenti si legge la partita geopolitica che – come per il clima – sta avvicinando le due sponde dell’Atlantico: Washington e Bruxelles si stanno già coordinando per limitare la minaccia cinese.


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