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Le vere ragioni dietro la fuga di capitali dalla Cina

Più del debito, del collasso del mattone e delle banche di territorio sull’orlo del fallimento, è il difficile rapporto tra Cina e Usa la vera causa dell’emorragia di investimenti vista in questi mesi. Perché la verità è che Pechino non può permettersi di non andare d’accordo con Washington

C’è un male oscuro che sta indebolendo, giorno dopo giorno, la finanza della seconda economia globale. Miliardo dopo miliardo, il mercato azionario del Dragone si sta svuotando, facendo perdere a Pechino e le sue Borse quel ruolo di baricentro alternativo all’Occidente. Alcune stime, quelle del Wall street journal, parlano di 24 miliardi di dollari volati via dallo scorso agosto. Altre portano il conto della fuga a 54 miliardi di dollari, nel solo mese di settembre. Miliardo più, miliardo meno, è un fatto che gli investitori non se la sentano più di parcheggiare i propri capitali sui listini cinesi.

I problemi del Dragone, debito e collasso del mattone in testa, sono fin troppo noti. Eppure non basterebbero a scatenare una tale ondata di panico. C’è un motivo molto più specifico: il pessimo rapporto della Cina con gli Stati Uniti. Il fatto è che i soldi vanno sempre dove c’è tranquillità, distensione, serenità, certezza. E tra la prima e la seconda economia del Pianeta, ad oggi, non c’è nulla di tutto questo, nonostante gli sforzi, indubbi, del segretario al Tesoro Usa, Janet Yellen, e di alcuni grandi banchieri americani, che la scorsa estate hanno dato vita a una specie di pellegrinaggio in Cina, per tentare di costruire nuovi ponti tra i due sistemi finanziari. Non è bastato.

Se ne sono accorti persino allo stesso Wall street journal, chiamando in causa stavolta non i soliti problemi atavici che affliggono il Dragone e poc’anzi menzionati, ma proprio quella sensazione di perenne tensione tra Washington e Pechino che rende impraticabile ogni investimento. Come a dire che senza un buon rapporto con gli Stati Uniti, la Cina non potrà tornare attrattiva agli occhi del mercato. “Investire in Cina non è mai stato così pericoloso”, esordisce il quotidiano americano in un editoriale.

“Quando gli investitori globali si sono riversati nel Paese durante il boom economico dello scorso decennio, i rischi geopolitici erano in secondo piano. Oggi questi rischi sono una delle principali considerazioni per gli acquirenti di azioni, obbligazioni e partecipazioni in società private cinesi, e stanno allontanando molti dagli investimenti in Cina. Le relazioni tra Pechino e Washington si sono deteriorate e l’impatto sull’economia e sui mercati finanziari cinesi è emerso chiaramente quest’anno, in modo violento”. Molto più dell’immobiliare, del debito, delle banche, può la geopolitica e i rapporti a essa connessi, insomma.

“La scorsa estate, gli Stati Uniti hanno limitato gli investimenti degli americani in società cinesi in alcuni settori ad alta tecnologia. E gli stessi Usa hanno anche imposto restrizioni all’esportazione di chip di semiconduttori avanzati che possono essere utilizzati per sviluppare l’Intelligenza Artificiale e le relative attrezzature di produzione, per limitarne l’uso da parte dell’esercito cinese. A novembre il gigante cinese di internet Alibaba ha accantonato un piano per scorporare la sua grande divisione di cloud computing perché le restrizioni sui chip imposte da Washington potrebbero ostacolare le attività commerciali dell’unità. Alibaba ha perso circa 20 miliardi di dollari di valore di mercato in un giorno, dimostrando come le tensioni tra Stati Uniti e Cina possano causare perdite inaspettate per gli investitori”, chiarisce ancora il Wsj. Tutta colpa del cattivo rapporto con Washington.

“Anche gli investitori internazionali di venture-capital e private-equity devono valutare con maggiore attenzione le aziende cinesi. Per ogni operazione, ora consideriamo il rischio geopolitico e il rischio normativo prima ancora di iniziare a valutare correttamente l’attrattiva dell’azienda e del modello di business”, ha dichiarato l’economista e trade Alvin Lam. Se la Cina avesse avuto un approccio più costruttivo con l’Occidente, quasi malleabile, forse tutto questo non sarebbe successo. E Shenzen, Shanghai e la stessa Pechino sarebbero ancora quei cuori pulsanti della finanza globale.

“Molte delle principali banche di Wall Street sostengono oggi che la maggior parte degli hedge fund e dei gestori di fondi attivi che hanno venduto le loro partecipazioni in Cina non torneranno finché non ci saranno miglioramenti significativi nelle prospettive di crescita del Paese e nelle relazioni con gli Stati Uniti”. E tornano i numeri. Goldman Sachs ha dichiarato in un rapporto del 12 novembre scorso che, in quello che ha definito uno scenario molto ostico, gli investitori potrebbero vendere altri 170 miliardi di dollari in azioni cinesi. Basterebbe che i fondi pensione statunitensi liquidassero completamente le loro partecipazioni in Cina. Per motivi geopolitici, si intende.



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