La nuova nave della città-stato asiatica è un ibrido tra fregata e piattaforma per droni, progettato per operare come nodo di controllo e hub logistico per questi ultimi. Delineando le future evoluzioni della guerra in mare, dove l’attrito sarà sempre più dominante
Una nave che sembra provenire da Battlestar Galactica. Così il ministro della Difesa di Singapore Chan Chun Sing ha definito la “Victory”, primo dei sei esemplari della nuova classe di Multi-Role Combat Vessels (Mrcv) in costruzione per la marina della città-stato asiatica, il cui varo ufficiale è avvenuto pochi giorni fa (anche se la vera e propria entrata in servizio è prevista per il 2028/2029). Con una stazza di 150 metri di lunghezza per 8.000 tonnellate di peso, il nuovo vascello è il più grande mai operato dalla marina di Singapore. Esso è equipaggiato con tutti i sistemi canonici di una fregata, a partire dal cannone navale Leonardo Strales da 76 mm, due stazioni d’arma telecomandate Rafael Typhoon Mk 30-c, missili antiaerei (nello specifico Mica e Aster) e missili antinave (probabilmente Blue Spear, ma non ci sono conferme al riguardo. Ma non sono gli armamenti “canonici” ad attirare l’attenzione.
La “Victory” ospiterà infatti un arsenale di sistemi unmanned di vario tipo, dagli Unmanned Aerial Vehicles (Uav) agli Unmanned Surface Vessels (Usv) e agli Unmanned Undewater Vehicle (Uuv), che opereranno come vere e proprie estensioni della “nave madre”. “Non è solo una nave, ma un sistema integrato con intelligenza artificiale e un cervello in continua evoluzione”, ha detto parlando della nuova nave da guerra, sottolineando che il concetto operativo dietro al vascello gli ricordava “i film di fantascienza, perché non si tratta di avere un numero fisso di droni o imbarcazioni di superficie senza equipaggio. Man mano che la missione evolve, evolveremo anche il tipo di sistema d’arma e le capacità che possiamo avere sulla nave”.
Il caso della “Victory” non rappresenta però un unicum. Anzi, è casomai un’ulteriore conferma di un trend che si sta facendo sempre più evidente, ovvero quello dello sviluppo di sistemi che favoriscano l’approccio della “nave-madre” per integrare i sistemi unmanned nella dimensione del warfare moderno. Questo approccio prevede infatti l’utilizzo di vascelli “classici” che svolgano la funzione di nodo di controllo e hub logistico per decine di sistemi senza equipaggio, con cui svolgere (anche simultaneamente) compiti di Isr (Intelligence, Surveillance, Recognition), guerra anti-superficie/sottomarina, guerra elettronica e altre ancora. Alcune navi che sfruttano appieno questo approccio sono già operative. Tra queste spicca la “Zhu Hai Yun”, un vascello cinese completamente privo di equipaggio ufficialmente sviluppato con finalità scientifiche, ma de facto prima vera portadroni unmanned nella storia.
Queste navi hanno però una serie di vulnerabilità. Come, ad esempio, la loro dipendenza da link dati e satelliti, che le rende bersaglio per interferenze di guerra elettronica e attacchi cyber. Tuttavia, la versatilità offerta da questa tipologia di navi, che permette di abbassare i costi della difesa, riducendo il bisogno di investire in più massicce e costose piattaforme che necessitano di equipaggi più ampi, impatta non poco sul calcolo costi-benefici fatto dai policymakers.
Questa tipologia di vascello rappresenta un punto di passaggio verso un impiego molto più esteso dei droni nella guerra navale, che potrebbe procedere (e probabilmente lo farà) un adattamento dottrinale molto più incentrato su logiche di attrito sempre più nette. Esattamente come avvenuto nella dimensione terrestre, come dimostrato dalle dinamiche ucraine.
















