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Stati Uniti, forse si cambia. L’analisi di Polillo

Ciò che più sorprende nelle elezioni di New York è il richiamo al socialismo (altro che comunismo!) da parte di Mamdani nella patria di Sacco e Vanzetti. Quegli anarchici italiani condannati, a Boston, alla pena di morte per un reato mai commesso. A loro volta immigrati, ma soprattutto portatori di un legame con la cultura occidentale che Trump, almeno in questo caso, non è riuscito a recidere. L’analisi di Gianfranco Polillo

Non solo New York, ma la Virginia e il New Jersey: i luoghi in cui si è manifestata la resilienza di uno spirito democratico che sembrava appassito. Non è certo la fine del trumpismo, ma un primo colpo all’immagine di colui che aveva cercato di trasformare la politica nell’onnipotenza. Ne seguiranno altri? Chi può dirlo. Resta comunque la grande massima di Mao Zedong secondo il quale la grande marcia, che aveva segnato in Cina il trionfo della rivoluzione, era iniziata con un piccolo passo. Altri, quindi, ne seguiranno? Non dovremmo attendere molto: le prossime elezioni di midterm daranno una prima significativa risposta.

Donald Trump, comunque, ha accusato il colpo. Per lui Mamdani, il prossimo sindaco della Grande mela, resta un pericoloso “comunista”. Ha l’ulteriore difetto di essere giovane e musulmano. Nonché di aver ricevuto in passato la cittadinanza americana. Risposta beffarda dell’elettorato di New York a quel maccartismo di ritorno che aveva portato l’Amministrazione a perseguitare tutti coloro la cui analisi del sangue non era risultata uniforme. Non aveva mostrato cioè gli anticorpi indispensabili per essere considerati buoni cittadini americani.

Ancora più eccentriche le giustificazioni. Colpa dello shutdown (il blocco della spesa pubblica), giunto al trentaseiesimo giorno: il più lungo di sempre. Come se non fosse responsabilità del Presidente ricercare in Parlamento il consenso necessario per mandare avanti le cose. Spirito alieno per chi, come Trump, crede solo nell’ostentazione della forza. Ancora più respingenti certe sue affermazioni. I candidati presidenziali – tra cui Andrew Cuomo proveniente egli stesso dalle file democratiche – hanno perso perché sulla scheda elettorale non era il suo nome. Fosse questa la ragione, Trump dovrebbe candidarsi in ogni dove: dal più piccolo paesello fino premio Nobel per la pace.

Giustificazioni che non solo lasciano il tempo che trovano, ma impediscono di comprendere le ragioni effettive che hanno portato a quei risultati. Da questo punto di vista la realtà di New York è una sorta di libro stampato, che bastava sfogliare. La sua economia vale 2,3 trilioni di dollari. È più grande di quella del Canada e rappresenta circa il 9% del Pil americano. In città risiedono i principali finanziatori delle campagne presidenziali. Secondi solo a coloro che vivono in Washington DC. Nell’élite della politica, i newyorchesi hanno una posizione prevalente: non solo Donald Trump, ma Steve Witkoff e Howard Lutnick, il primo inviato per la pace e il secondo segretario al commercio. Chuck Schumer e Hakeem Jeffries, a loro volta, guidano i Democratici rispettivamente al Senato e alla Camera.

Nonostante queste presenze, il suo modello di sviluppo si è quasi inceppato. Il 40% delle sue entrate fiscali derivano da una platea più che circoscritta. Appena l’1% dei contribuenti. Il che fornisce un’idea precisa sulla concentrazione della ricchezza. A danno dei più, che non riescono ad ottenere posti di lavoro adeguati alle loro aspirazioni e skill professionale. Di conseguenza sono costretti a tirare una carretta sempre più pesante. Gli affitti medi sono più del doppio della media delle 50 città più grandi d’America. Il costo degli asili nido è aumentato di oltre il 40% negli ultimi cinque anni. L’inflazione continua la sua corsa inarrestabile, costringendo una middle class sempre più malandata a continue piroette per sbarcare il lunario.

Quel microcosmo riflette tutte le grandi contraddizioni americane. L’aumento dei prezzi che ha colpito i generi alimentari non è solo caratteristica della Grande mela. Il prezzo delle uova – che lo scorso anno aveva giocato a favore di Trump – è di nuovo in forte crescita. Non siamo ancora ai livelli dello scorso agosto – quasi 3,5 dollari la dozzina – ma una nuova ondata di influenza aviaria altamente patogena sta allarmando i consumatori e creato ulteriore incertezza. Mentre sullo sfondo serpeggia sempre più l’idea, che quello slogan: MAGA (Make America Great Again), che tanto aveva contribuito al suo successo elettorale, sia rimasto solo uno slogan.

Si può ipotizzare così un primo tentativo di analisi. Di fronte ad un Partito democratico, che di fatto si era suicidato con le incertezze dimostrate nella scelta del suo candidato alla Presidenza, Donald Trump aveva giocato la carta della crisi. Gli Stati Uniti ormai circondati tra rivali politici, a partire dalla Cina e non solo, e da scrocconi, come l’Europa, era sul punto di precipitare. Di perdere quell’egemonia che le aveva garantito un ruolo imperiale negli anni della crisi del blocco comunista. Occorreva pertanto reagire con una politica diversa dal passato: tutta centrata sulla difesa intransigente e prioritaria dei propri interessi nazionali.

Da qui quel florilegio di azioni destinate a ridisegnare la mappa delle relazioni internazionali. Quindi la scelta dei dazi e della contestuale svalutazione del dollaro, senza pensare alle sue conseguenze in termini d’inflazione. Una politica di bilancio più che avventurosa. Fatta di deficit e sgravi fiscali a favore dei ceti più abbienti. E di contenimento della spesa sociale. Con un riflesso immediato sull’andamento del debito pubblico, sempre più vicino a quello italiano. Tutte scelte che avevano scioccato un elettorato abituato ad essere una cosa diversa. A sentirsi parte di un Occidente che quelle politiche stanno sempre più indebolendo, nonostante l’indubbio successo della sua politica mediorientale.

Ciò che più sorprende nelle elezioni di New York è proprio il richiamo al socialismo (altro che comunismo!) da parte di Mamdani nella patria di Sacco e Vanzetti. Quegli anarchici italiani condannati, a Boston, alla pena di morte per un reato mai commesso. A loro volta immigrati, ma soprattutto portatori di un legame con la cultura occidentale che Trump, almeno in questo caso, non è riuscito a recidere.


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