Dopo decenni di dominio assoluto e di debito tossico, gli investimenti a stelle e strisce nel continente africano superano quelli cinesi. E con il Piano Mattei, l’argine dell’Occidente all’avanzata del Dragone può irrobustirsi. Ora a Pechino non resta che puntare sulla manifattura
Non era facile strapparla dalle grinfie del Dragone. Eppure è successo. Decenni di colonizzazione dell’Africa da parte della Cina sono bastati, come più volte raccontato da questo giornale, a mettere sotto sopra le finanze di un intero continente. Tutto o quasi, in Africa, è stato costruito con i soldi delle banche di Pechino: strade, ponti, ferrovie, acquedotti. Tutto molto bello, se non fosse che il lato oscuro di questa mole di investimenti è il debito altamente tossico che ancora tiene in ostaggio intere economie africane. Il risultato è che, ancora oggi, la Cina è il maggior creditore dell’Africa.
Qualcosa, però, sta lentamente cambiando. Il Dragone rischia seriamente di perdere il controllo del continente africano, mai così strategico come in questi tempi di corsa forsennata alle terre rare, ricco come è di minerali e metalli essenziali, come litio, terre rare, cobalto e tungsteno, essenziali per la produzione e il funzionamento, tanto per fare un esempio, dei dispositivi tecnologici, passando anche per i veicoli elettrici e i data center di Intelligenza Artificiale, fino ai sistemi d’arma.
Secondo un’analisi della John Hopkins, gli Stati Uniti hanno di fatto superato silenziosamente la Cina come maggiore investitore diretto estero in Africa. Washington ha infatti puntato nell’ultimo anno solare sull’Africa 7,8 miliardi di dollari (6 miliardi di sterline), rispetto ai 4 miliardi di dollari della Cina (i flussi hanno raggiunto il picco nel 2008, raggiungendo i 5,5 miliardi di dollari, trainati dall’acquisizione da parte della Industrial and Commercial Bank of China di una quota del 20% nella Standard Bank of South Africa).
Un dato poco noto ma che ha la sua rilevanza, dal momento che è la prima volta dal 2012 che gli Stati Uniti riprendono il comando. Più nel dettaglio, le prime cinque destinazioni africane per gli investimenti cinesi sono state Niger, Sudafrica, Angola, Marocco e Repubblica del Congo. Per gli investimenti statunitensi, invece, le principali destinazioni sono state Egitto, Sudafrica e Nigeria. A questo punto è evidente che il baricentro dell’Africa si sta, lentamente, riposizionando. Nel conto, infatti, c’è da mettere anche l’Europa, che non avrà certo la capacità di investimento di Cina e Usa, ma sull’onda del Piano Mattei di concezione italiana, può certamente dare man forte nell’arginare il Dragone.
A questo punto, quali carte giocherà la Cina? Con ogni probabilità, più che sugli investimenti, Pechino punterà sulla manifattura. Con un salto del 25% su base annua a 122 miliardi di dollari, le esportazioni cinesi in Africa sono sulla buona strada per superare i 200 miliardi di dollari. Considerando in particolare l’Africa occidentale e il Sahel, aree ricche di risorse minerarie, le esportazioni del Dragone sono state rispettivamente di 57 miliardi e 16 miliardi, mentre per il Corno d’Africa, questi flussi commerciali hanno raggiunto i 7 miliardi. Vendite costituite principalmente da macchinari ma anche da molti altri beni prodotti dalle industrie cinesi (calzature e abbigliamento, telefonia e dispositivi elettronici, parti e componenti per l’industria e così via). Il terreno dello scontro si sposta su un altro livello.
















