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La competitività non ha passaporto. Il bivio europeo visto dall’Ecipe

Se il Vecchio continente vuole uscire dal pantano nel quale è finito, deve cambiare radicalmente approccio e uscire dalla trincea. Crescere e resistere alla pressione della Cina significa anche e soprattutto incamerare tutti quegli investimenti non ostili e per questo utili alla crescita. A prescindere dalla nazionalità

Meno bandiere, più visione. L’Europa che ancora si interroga su come e in che misura mettere a terra il rapporto Draghi, è all’ennesimo bivio. Come reagire alla sfida cinese? E come salvare la propria industria dell’auto? Domande oggi ancora senza una risposta esaustiva. A monte, però, c’è una questione di filosofia e anche un po’ di metodo. Sollevata per l’occasione da uno dei più autorevoli centri studi in Europa, lo European centre for international political economy (Ecipe). Della serie, ma non è che alla fine l’Europa sta prendendo la questione della competitività dal lato sbagliato?

“La competitività dell’Europa si fonda su apertura, interdipendenza e radicamento globale. La sua prosperità non dipende dal numero di aziende che possiede, ma da quante scelgono l’Europa come luogo in cui investire, innovare e dare lavoro. Le multinazionali con sede centrale in Europa e all’estero generano un enorme valore aggiunto, investimenti di capitale e ricadute tecnologiche in Europa, costituendo la spina dorsale del suo rinnovamento industriale, della crescita della produttività e della capacità di innovazione”, premette l’Ecipe nella sua analisi.

“Tuttavia, l’attuale dibattito sulla competitività si ripiega troppo spesso su se stesso, concentrandosi sulla nazionalità delle aziende anziché sul loro contributo all’economia europea. Questa inquadratura è obsoleta e controproducente. Perseverare con essa rischia di privare gli europei di future opportunità economiche e tecnologiche, poiché distoglie l’attenzione politica dai veri motori della competitività: investimenti, innovazione e integrazione”. Tradotto, se l’Europa “continua a misurare il successo in base al passaporto di un’azienda anziché alla sua impronta produttiva, eroderà la sua attrattività per investitori e talenti globali. Il risultato sarebbe una diffusione tecnologica più lenta, un rinnovamento industriale più debole e una riduzione dei posti di lavoro di alta qualità. In un’economia in cui conoscenza, dati e capitali si muovono senza soluzione di continuità oltre i confini, un atteggiamento difensivo non proteggerà gli interessi europei, ma li isolerà”.

Ecco quindi una prima conclusione. “Per continuare a essere un polo globale per l’innovazione e la produzione avanzata, l’Europa deve sostituire una politica di proprietà con una politica di abilitazione, che consenta ad aziende, lavoratori e innovatori di investire e crescere in Europa, indipendentemente dalla sede centrale. Un’Europa competitiva deve rimanere aperta, prevedibile e connessa a livello globale, rafforzando sia l’integrità del suo Mercato Unico sia il suo impegno attraverso il commercio, gli investimenti e i partenariati multilaterali”,

L’Ecipe ha effettuato una specie di esperimento, analizzando 100 delle più grandi e più attive imprese multinazionali al mondo, con una presenza operativa significativa in Europa. Il campione comprende i settori tecnologico, farmaceutico, automobilistico, della vendita al dettaglio, energetico e manifatturiero, comprendendo 42 aziende con sede in Europa e 58 al di fuori dell’Europa, che complessivamente generano 10,4 trilioni di euro di fatturato globale e 822 miliardi di euro di investimenti di capitale annuali.

Ebbene, “la loro presenza combinata dimostra l’attrattiva duratura dell’Europa come luogo ideale per investire, produrre e innovare, nonché la sua dipendenza dai leader industriali nazionali e internazionali per sostenere la competitività. Sebbene permangano lacune nei dati dovute a informative aziendali non standardizzate, i risultati forniscono un quadro solido, trasparente e replicabile di come le multinazionali modellano il tessuto economico europeo, rafforzandone l’integrazione nelle catene del valore globali e la capacità di attrarre settori e talenti di frontiera”. Insomma, le bandiere, quando si vuole competere, servono a poco.

 


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