Poco conta che La Repubblica e La Stampa non saranno più “italiane”. È il mercato bellezza. Le idee nascono nei “luoghi aperti”: le Università devono aprire le proprie sedi per ricostruire i nuovi luoghi dove nascono le idee cogliendo l’occasione della maggiore libertà di comunicazione di cui godono gli individui grazie alla tecnologia. L’opinione di Alessandro Sterpa, professore ordinario all’Università della Tuscia
Quel mondo fatto di tanti e diversi luoghi di riflessione nei quali si è costruito il pensiero umano nei secoli semplicemente non c’è più.
Alcuni se ne accorgono solo ora perché La Repubblica e La Stampa non saranno più di proprietà di imprenditori italiani: è come accorgersi che è inverno perché è chiuso lo stabilimento balneare.
Non è solo il mercato europeo, bellezza: siamo in un cambiamento più profondo.
Un’idea ha bisogno di luoghi in cui formarsi e dispiegarsi nel rapporto con l’altro e con la realtà. Luoghi fisici abitati dai corpi e luoghi immateriali frequentati dai pensieri e dalle riflessioni.
Questi luoghi sono stati una costante del Novecento politico: le scuole, le università, le fabbriche, le assemblee, le feste locali e quelle politiche, le sezioni di partito, i centri studi, i salotti e i caffè letterari, le manifestazioni di piazza e i cortei, le sedi delle istituzioni in particolare i consigli comunali, quelli regionali e le camere, i giornali, le case editrici e così via.
Si trattava di forme di uno stare insieme per contaminarsi ma anche luoghi che costruivano idee che abitavano l’identità dell’uomo sociale che apprendeva categorie, più o meno elaborate, che lo accompagnavano nella vita, sia che egli ne fosse cosciente, sia che ne subisse un inconscio fascino ordinatore che lo aiutava nella cognizione della realtà.
Quelle fucine di incredibile elaborazione erano presupposto di innovazione, ma anche modalità di semplificazione del mondo allorché partorivano chiavi di letture unitarie, uniche e ideali. Tenevano insieme la libertà del singolo con la consapevolezza dello stare insieme.
Hanno incluso nella vita politica generazioni di soggetti culturalmente ai margini del Paese grazie all’elaborazione.
Oggi il pensiero non ha più questa miriade di luoghi per formarsi. Vive nelle dinamiche rapide e compulsive delle nostre relazioni sociali che sono in special modo, come sappiamo, mediate dalla tecnologia, dai social e dagli smart-phone.
I confronti si radicalizzano quasi immediatamente e diventano infruttuosi e le persone si chiudono in bolle con i propri simili.
Parte dell’editoria si è disabituata all’apertura e al confronto delle idee e non contribuisce più da tempo alla costruzione del pensiero libero.
Alcune delle attività editoriali più grandi sono in mano ad imprese di altri più redditizi campi che investono (a perdere) per avere un’arma di comunicazione nelle dinamiche sociali e politiche del Paese.
Uscite dal Paese le imprese “connesse” al gruppo di La Repubblica e La Stampa, sembra coerente che quell’imprenditore decida di lasciare l’attività editoriale.
Credere che mantenere in mani italiane uno o due dei – sempre meno letti – quotidiani italiani possa salvarci dalla “fine dei luoghi” di formazione del pensiero è pura illusione.
Si fa fatica ad essere sede di costruzione di pensiero se c’è da “tenere una linea” o quando l’indignazione democratica agisce verso una piccola casa editrice fiorentina e fa salve altre pubblicazioni che legittimano Stalin.
Non è che in Accademia vada sempre meglio. Gli esami e le tesi di laurea riescono sempre meno a diventare occasioni di pensiero nuovo.
I convegni sono tanti, le presenze non sempre numerose e il dibattito a volte insufficiente. A seminari di assoluta qualità trovi poche persone o, peggio, solo soggetti che “devono starci” per omaggiare l’organizzatore di turno.
Neppure l’Accademia stessa riesce sempre a conservare le sue forme che, per quanto la riguardano, sono addirittura di secoli precedenti al Novecento.
Perché è accaduto tutto questo? Una certa parte della cultura della sinistra italiana ha trasformato alcuni di quei luoghi editoriali e accademici – soprattutto dagli anni Settanta – in contenitori di omogeneità e ad un certo punto finanche in aggregati di fedeltà; peraltro, di una fedeltà sempre meno ad una idea e sempre di più ad un gruppo o ad un leader. Insomma li ha resi “luoghi chiusi” come bolle non comprendendo la maggiore autonomia con la quale oggi riflettono liberamente le persone.
Sappiamo che è sempre più difficile “fare pensiero” in alcuni contesti accademici radicalizzati e chiusi in sé stessi, che non vogliono uscire dal solco della loro “scuola” la fedeltà alla quale si sostanzia nella selettiva citazione solamente di una parte della dottrina.
A maggio scorso, durante una lectio in Sicilia, una sfortunata collega (sì sfortunata, perché tale è chi non riesce a vivere la diversità) ha urlato in sala, mentre parlavo, “per fortuna che all’Università non si studia von Hayek!”.
Occorre salvare la funzione di costruzione di pensiero e darle dei luoghi nuovi superando l’impostazione di troppi che è condizionata dalla logica dell’appartenenza mentre ora servirebbe l’opposto ossia la logica della apertura.
Costruire luoghi di apertura appare l’unica strada che la cultura e la politica italiana possono percorrere per ridare una casa al pensiero senza scambiare la replica di slogan per elaborazione culturale.
Serve creare luoghi di libertà nel pensare e nel proporre, competizione delle idee e delle proposte, come fa già in certi casi la politica, da anni alla Leopolda, in alcune isolate scuole di partito e ora in modo evidente anche ad Atreju, ma non a certe feste di partito dove si celebra, salvo rari casi, un rito consumato nonostante la grande passione di tantissimi straordinari militanti.
Non serve – per capirci – rinchiudersi in qualche borgo trendy a cantarsela e suonarsela tra sodali.
Neppure servono Università, luoghi dell’apertura per antonomasia, impegnate in un surreale dibattito interno ed esterno se fare o meno questa o quella iniziativa politica o se invitare questo o quell’esponente istituzionale o scientifico.
Fanno bene Carlo Calenda e alcuni ministri a girare gli Atenei. Un plauso alle Università che aprono le porte a tutti i politici e a tutte le istituzioni e che non si perdono inseguendo una inconferente funzione di neutralità culturale intesa come chiusura: arene di confronto aperte a tutti.
Abbiamo assistito in questi mesi a cosa accaduto negli Atenei rispetto alla crisi mediorientale o all’ondata di estremizzazione della cultura woke con tanto di cancel culture ed eccessi del politicamente corretto.
Se anche l’Università si chiude, diventa luogo di omogeneità e non di diversità pulsante, allora dovremmo davvero preoccuparci, perché sarebbe ben più grave del passaggio di proprietà di qualche giornale che non potrà più ospitare la recensione del libro del capocorrente di turno o dare sponda alle dichiarazioni di un politico.
Apertura fisica ma non solo. La rete, i social e gli algoritmi pretendono che il sapere scientifico e l’Accademia scendano in questa arena per costruire pensiero.
Per farlo servono studiosi seri, preparati, inclini all’apertura, empatici e liberi, capaci non solo di divulgare ma anche di dare skills senza banalizzare.
Serve un nuovo linguaggio che costruisca le condizioni del pensare e i presupposti della contaminazione virtuosa del confronto in quell’erotica dell’insegnamento che costruisce il vuoto e non riempie sacchi per dirla con Massimo Recalcati.
Non tutti gli accademici amano l’esposizione pubblica, c’è chi legge gli appunti mentre fa lezione e chi senza le slides ha una crisi di panico, ma per l’arena della rete serve coraggio: se l’Accademia non fa più pensiero non serve più al Paese.
Dobbiamo aprire gli Atenei e uscire dagli Atenei per ricostruire i nuovi luoghi dove nascono le idee cogliendo l’occasione della maggiore libertà di comunicazione di cui godono gli individui grazie alla tecnologia.















