La riunione del Consiglio supremo di Difesa convocata per il 25 febbraio dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, sarà probabilmente una delle più importanti degli ultimi anni perché la crisi libica ha bisogno di risposte urgenti. Mattarella e il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, farebbero volentieri a meno di imbarcarsi in una guerra in un territorio ostico e vastissimo, ma la situazione sta sfuggendo di mano e, se si continua a sostenere che l’Italia avrà la leadership politica delle operazioni, prima o poi bisognerà prendere atto che la nazione leader è quella che si impegna almeno come le altre da un punto di vista operativo, se non di più. Non si può essere leader se sono gli altri a fare il lavoro sporco.
Non è stato certo una sorpresa il 23 febbraio l’ennesimo rinvio del voto sul nuovo governo libico da parte del parlamento di Tobruk. Anzi, è la conferma che probabilmente un governo non ci sarà e comunque, anche se dovesse insediarsi, non rappresenterà mai la miriade di realtà tribali ed etniche. Senza governo legittimo e quindi senza richiesta formale di aiuto rivolta alla comunità internazionale, si arriverà a una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu. A quel punto l’Italia che cosa farà? Il 22 febbraio il Wall Street Journal ha pubblicato la notizia che il governo italiano nel gennaio scorso ha dato il via libera alla partenza di droni americani armati dalla base di Sigonella per combattere l’Isis. A due condizioni: i droni potranno essere utilizzati solo in funzione difensiva per proteggere le forze speciali statunitensi e il governo americano dovrà chiedere l’autorizzazione a quello italiano «caso per caso», come ha detto Renzi in un’intervista a Rtl 102.5. «Se ci sono iniziative contro terroristi e potenziali attentatori dell’Isis c’è uno stretto rapporto tra noi, soprattutto gli americani, e gli altri alleati. Siamo in piena sintonia con i nostri alleati internazionali» ha aggiunto il presidente del Consiglio.
La funzione puramente difensiva nell’uso dei droni fa tornare in mente la geniale definizione di «difesa integrata» coniata nel 1999 all’inizio della guerra in Kosovo. Il governo D’Alema comprendeva partiti di estrema sinistra come i Comunisti italiani di Armando Cossutta e, per attenuare le polemiche pacifiste, si spiegò che i caccia italiani intervenivano solo di scorta ai bombardieri alleati e che avrebbero attaccato le batterie serbe solo se fossero entrate in azione. Traduzione: noi spazzavamo via l’antiaerea serba e gli altri bombardavano più tranquillamente. Visto che di solito le forze speciali americane non vanno in Libia a prendere il sole sulla costa, il «caso per caso» molto probabilmente significa che i droni saranno usati in ogni operazione antiterrorismo. Il Wall Street Journal, però, ha anche scritto che il governo Renzi non ha autorizzato l’uso dei droni con finalità dichiaratamente offensive, come per esempio il bombardamento fatto il 19 febbraio da caccia F15 su un campo dell’Isis a Sabratha, con almeno 30 jihadisti e due ostaggi serbi uccisi. Il no italiano, secondo il quotidiano, è dipeso dalla volontà di evitare polemiche da parte di chi è comunque contrario alla guerra, soprattutto nel caso di vittime civili. Purtroppo gli eventi stanno procedendo più velocemente dei dibattiti parlamentari e lo scoop del Wall Street Journal costringe a spiegare pubblicamente scelte e obiettivi politici.
L’inevitabile escalation militare, dunque, preoccupa molto il governo italiano, anche se gli Stati Uniti non hanno intenzione di andare oltre le operazioni mirate e certo non schiereranno migliaia di uomini sul terreno mentre invece Francia e Gran Bretagna scalpitano. Una preoccupazione tale che un politico navigato come il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, molto esperto anche nella comunicazione, ai microfoni della Rai si è spinto a dire che l’uso delle basi italiane, e dunque dei droni, «non è certo un elemento che prelude a interventi in Libia, non ha nulla a che fare con dinamiche di interventi militari in Libia».
D’accordo essere prudenti e diplomatici, ma non si può negare l’evidenza. Ecco perché il Consiglio supremo del 25 febbraio si annuncia delicatissimo.