Oggi si festeggiano in tutto il continente le celebrazioni per la festa dell’Europa. Per l’occasione tutte le istituzioni dell’Unione sono aperte al pubblico. E anche le sedi locali presenti in tutti in Paesi del mondo, tra cui molte città italiane, organizzano una serie di eventi pubblici.
Ricorre, infatti, l’anniversario della Dichiarazione di Schuman, considerato il vero e proprio atto solenne di nascita dell’Europa. È molto importante che, soprattutto nelle scuole, se ne parli, e si comprenda e si discuta con i giovani sul significato storico e sulla evoluzione culturale di questa avventura.
Il presidente della Camera Laura Boldrini ha sottolineato come fosse audace allora tenere insieme in un percorso di pace nazioni che si erano combattute per millenni. E, al contempo, si deve considerare in aggiunta quanto sia oggi difficile restare fedeli con entusiasmo alle idee del Manifesto di Ventotene o dei Trattati di Roma.
Di là della comprensibile retorica, ha molta rilevanza interrogarsi non soltanto sullo stato di salute del progetto originario, ma anche su cosa va e non va nella odierna organizzazione dell’Europa.
In primo luogo è opportuno ricordare l’adesione forte che il nostro Paese ha fatto al programma di Unione, nel secondo dopoguerra, e il ruolo convinto che ha l’Italia nel renderlo possibile nel presente. Il fatto che adesso l’entusiasmo si sia un po’ spento deve costituire un motivo di riflessione generale sull’efficacia che le concrete realizzazioni hanno fin qui ottenuto.
In secondo luogo è quanto mai essenziale evitare il duplice rischio di considerare l’Unione Europea ineluttabile, sottovalutando le ondate populiste che ne contestano l’opportunità, o decretare semplicisticamente la sua sconfitta. L’Europa, infatti, non è né morta né entusiasmante.
Come si è detto certamente l’esistenza dell’Unione ha comportato e comporta molti effetti positivi, ancor più davanti ad un mondo globalizzato incerto e pericoloso come quello che viviamo: solide garanzie di pace, un sistema integrato di relazioni commerciali e gli indubbi fattori di stabilità provocati dal mercato unico e dalla moneta unica sono conquiste irrinunciabili. È sempre naturale, d’altronde, non vedere il bene che c’è, ma solo il male che affligge. Anche se tuttavia il bene c’è ed è evidente.
Il problema, quindi, non è abrogare e seppellire tutto, Euro compreso, tornando indietro, ma comprendere a fondo cosa non va e come fare per superare la crisi in atto, adattando e rinnovando l’Unione a un mondo che non è più quello di Spinelli, Monet e De Gasperi.
Se si rileggono l’Atto Unico e il Libro Bianco di Jacques Delors, ad esempio, si vede molto bene che gli obiettivi ratificati nel Trattato di Mastricht erano sostanzialmente tre: moneta unica, difesa unica, politica estera unica.
Di questi soltanto il primo ha trovato una sua concreta attuazione, con la sostanziale ascesa del ruolo della BCE e il depotenziamento consequenziale delle Banche Centrali Nazionali. Per quanto riguarda invece la difesa e la politica estera il percorso si è impantanato in mille difficoltà, non da ultimo la preminenza degli interessi nazionali e il dimorfismo strutturale in termini di identità e ricchezza tra le diverse e sempre più numerose nazioni componenti.
Oltretutto con il fallimento del progetto di redazione della costituzione europea, di cui era incaricata la Convenzione, presieduta da Valery Giscard-Estaing, anche per la bocciatura del voto popolare di alcuni Paesi e il sempre più ostile atteggiamento del Regno Unito, ha reso le istituzioni nel loro insieme distanti dalla gente, ingrassate di burocrazia e spogliate di legittimazione democratica.
Avere un Parlamento a Strasburgo ancora solo rappresentativo, una Commissione a Bruxelles che svolge non un ruolo legislativo di ausilio agli Stati ma coercitivo e vessatorio dei cittadini, e un Consiglio Europeo che è somma dei Governi nazionali senza grande potenza di sintesi, sicuramente non funziona.
Il punto essenziale è che negli anni ’50, dopo il dramma della guerra, si trattava di superare i nazionalismi. Oggi invece di fronte ad un mondo globale che con immigrazione e nuove minacce terroristiche mette le nazioni sotto tiro sono riemersi i popoli come comunità naturali e principi di identificazione locale forti e compatti che hanno indebolito e impoverito il senso e l’ideale illuministico dell’Europa.
L’Unione ha un futuro, insomma, unicamente se riscopre le radici interne profonde del suo essere. E perciò il suo domani non potrà essere né soltanto formale, né spogliato dal riconoscimento e dal coinvolgimento dei soggetti popolari che con le proprie tradizioni e le relative individualità danno linfa vitale all’intero continente.
Quello che non va, in definitiva, è sostanzialmente il carattere non compiutamente democratico, esclusivamente economico e scarsamente concreto dell’attuale Unione.
Quello che pertanto dovrà necessariamente essere posto al centro delle priorità è il fine politico disatteso, il quale inevitabilmente dovrà materializzarsi in quegli interessi che i diversi Paesi possono tutelare soltanto tutti insieme, vale a dire difesa e politica estera comuni. Finché il modello delle istituzioni rispecchierà una vocazione imperiale, distante e distaccata dai cittadini, non vi sarà né nuovo né vecchio europeismo.
Viceversa un’Europa snella, democratica, solidale, efficace e politica rappresenta esattamente quanto serve, e quanto vogliono ancora i popoli e le comunità che vivono a nord e ad est del Mediterraneo.