Sul terremoto che sta sconvolgendo i vertici amministrativi della Capitale si è detto quasi tutto. Una tempesta perfetta, uno tsunami, guerre stellari tra i diversi gruppi in cui si articolano i 5 stelle. Senza dimenticare quel pizzico di “familismo” che da tempo ne caratterizza la struttura. Cose normali, se a volte, come nel caso dell’ATAC o dell’AMA, non fossero, anche, all’origine di quella reazione a catena che ha portato alle dimissioni dei vertici delle due più importanti municipalizzate romane.
Le cronache hanno raccontato il casus belli. Nell’azienda di trasporto era stato rimosso l’ing. Federico Chiovelli, militante 5 stelle e cugino di Paola Chiovelli, assessora grillina al XV Municipio. L’assessora Meleo, responsabile romana del settore, non aveva gradito. Presa carta e penna aveva chiesto conto di quel trasferimento, rivendicando inesistenti prerogative del socio di maggioranza. All’AMA, situazione analoga, anche se rovesciata. Il presidente, appena eletto, si sarebbe rifiutato di togliere la delega al personale al dirigente Saverio Lopez, come richiesto dai responsabili politici. Nuovo scontro in Campidoglio. Quindi l’addio del commercialista venuto da Milano, Alessandro Solidoro, su richiesta del dimissionario Marcello Minenna, fino a ieri il più importante assessore della Giunta.
Citiamo questi casi non per il gusto del gossip. Ma per la loro evidente contraddizione con la retorica dei 5 stelle. Quella secondo la quale il Movimento è la spada fiammeggiante dell’Arcangelo vendicatore che si abbatte su ladri e farisei. Cose, per la verità, già sentite e catalogate. Il fenomeno è quello noto dell’eterogenesi dei fini. Vecchio cavallo di battaglia di vari pensatori, tra cui Machiavelli e Giovan Battista Vico. Gli ideali sono nobili, ma spesso accade che la storia, quella vera degli uomini, porti a conclusioni opposte. È quello che sta avvenendo nel micro cosmo romano. E che, in una dimensione ben più ampia, capitò ai vecchi comunisti del secolo passato. La cui “città del sole” si trasformò, ben presto, nel gulag siberiano.
Per quegli stessi comunisti ci sono voluti anni per costruire, su una struttura ideologica ben più possente, una cultura di governo. Per i grillini, l’impresa è ancora più difficile. Non hanno un retroterra altrettanto solido. Sono solo teorici di una “discontinuità”, animata da buone intenzioni, ma incapace di abbozzare il benché minimo disegno dell’altra riva del fiume. In mezzo a queste acque limacciose, il conflitto tra la ragione ed il sentimento é destinato a prevalere. Trasformandosi in una miscela pronta a deflagrare.
Esiste un rimedio? Difficile rispondere. Nell’incomunicabilità che caratterizza i rapporti tra lo stesso Beppe Grillo e la stampa, si può leggere questa stessa difficoltà. In altre parole “i limiti di quel linguaggio”, non compreso da giornalisti e intellettuali, sono soprattutto i “limiti del suo mondo” (Wittgenstein) e del Movimento che rappresenta. La cui forza effettiva è data solo dalla crisi delle altre culture politiche italiane e non solo. Ma tutto ciò non basta, come risulta evidente nel caso di Roma, per offrire ad un elettorato stanco e preoccupato una reale alternativa.