La tragica vicenda di Dj Fabo, al secolo Fabiano Antoniani, giovane trentanovenne da tre anni paraplegico e cieco a seguito di un gravissimo incidente stradale, ha riaperto il dibattito molto complesso sul fine vita. La causa è stata scatenata dalla richiesta che egli ha inviato al presidente della Repubblica Sergio Mattarella di poter dire basta alla tremenda sofferenza che lo affligge con una pratica di eutanasia ad oggi proibita in Italia.
Com’è noto la discussione si accese già nello scorso decennio a seguito della famosa vicenda di Eluana Englaro, e adesso torna di nuovo alle cronache dopo che DjFabio ha deciso di recarsi in Svizzera per compiere la propria volontà di morte anticipata.
La premessa, in casi del genere, è d’obbligo. Un dolore e una sofferenza così tremenda che una persona si trova ad affrontare causa, naturalmente, una solidarietà intima e profonda per chiunque abbia un minimo di sensibilità. Ciascuno di noi si sente coinvolto, semplicemente perché la fragilità della condizione umana è universale, e oltretutto crea scandalo quando si presenta senza ragione in una vita con così sconvolgente drammaticità.
Da questo punto di vista è molto difficile non sentirsi prossimi e partecipi.
Partendo da questa sollecitazione concreta, appare ad alcuni come un diritto della persona il poter optare per una dolce morte, e sembra esserci un accanimento crudele in una legge che non permette invece nel nostro Paese di poter perseguire liberamente una pratica voluta e controllata di eutanasia.
Se tuttavia questo ragionamento non può non toccare il cuore, è indispensabile capire anche cosa trattenga molte persone, compreso il sottoscritto, ad essere favorevole a pratiche volontarie di interruzione della vita, come anche, all’opposto, di accanimento terapeutico.
Per stabilire la legittimità ad intervenire volontariamente su qualcosa è indispensabile, in effetti, che si conosca fino in fondo di che cosa si tratta. Se, ad esempio, devo scegliere se chiudere o no un’attività professionale, se fare o no un intervento chirurgico, se interrompere o no una terapia, è logico che tale scelta è determinabile sulla base almeno delle conseguenze che deriveranno.
Qui, però, si è in una condizione limite. Se, infatti, nessuno si avventura a racchiudere in una comprensione definitiva il significato della vita umana, nondimeno sembra molto difficile impedire ad una persona di poter almeno disporre con la propria volontà di se stesso, decidendo se e in che misura egli voglia continuare a vivere nella afflizione oppure porre termine all’agonia.
Vista da questo lato, la questione del diritto all’eutanasia sembra già risolta a monte in suo favore.
Ma è veramente così?
Se, ampliando il ragionamento, spostiamo, ad esempio, il baricentro del discorso sul rapporto tra l’esistenza umana personale e l’imponderabilità non calcolata e non calcolabile del suo significato, ecco che molti dubbi sembrano assalire la mente in modo diverso e più angoscioso. Nessuno di noi ha deciso quando nascere, nessuna persona può disporre del tempo che ha disposizione e, anche nei casi più normali, ogni persona non vive costantemente in condizione di salute, privo di dolore e sofferenza, e soprattutto nessuno sa quando morirà.
L’esistenza, la vita, è una premessa misteriosa ed originaria partendo dalla quale progressivamente una persona viene alla luce, gradualmente si rivela e vede generarsi così nel tempo tutte le facoltà conoscitive e attive, finanche la stessa libertà di scegliere e agire. Perciò, in condizioni normali, nessuno pensa che si abbia non soltanto la libertà di decidere della vita di un’altra persona, ma anche la legittimità a disporre totalmente della propria. Con ciò non si vuol dire, ovviamente, che un essere umano non possa suicidarsi se vuole farlo, ma che eticamente si tratta comunque di un uso della libertà tragico che va contro la condizione stessa che rende possibile tutto il resto, vale a dire la vita stessa indisponibile di una persona.
Se, in definitiva, è comprensibile l’angoscia e anche lo sconforto in una situazione evidentemente disperata, diventa però altamente discutibile rendere legale il suicidio consapevole proprio perché appare contraddittorio concedere che una persona possa avere il potere di decidere su ciò di cui egli non ha effettivamente potere.
La vita è talmente complessa, ricca e trascendente da oltrepassare la comprensione che possiamo avere del suo senso ultimo. Se non fossimo in vita non potremmo, infatti, neanche porci interrogativi come questo e sapere di non poterli risolvere. Nessuno, infatti, sa realmente perché abbiamo la facoltà di conoscenza che altri animali non hanno e perché siamo effettivamente dotati di libero arbitrio. Nessuno di noi sa cosa avviene quando moriamo, se continuiamo a vivere anche dopo, e quale sia il valore e il significato temporale di un dolore tanto atroce. Non lo sappiamo. Concedere legalmente la possibilità dell’eutanasia vuol dire affidare alla libertà presente il giudizio ultimo sulla vita nostra o altrui, senza che vi siano le condizioni per poter attribuire tale legittimazione alla nostra conoscenza che abbiamo realmente di noi stessi.
Nessuno dispone della propria salute e della propria malattia, nessuno può decidere di non ammalarsi, e tanto meno vi è qualcuno che possa essere causa della propria esistenza. Ritenere che si debba autorizzare una libertà ad essere causa della propria morte è pertanto illegittimo perché appare come una scappatoia piuttosto che una reale interrogazione sul senso inconsapevole, impenetrabile e imponderabile della nostra lotta per esistere.
Una cosa è certa, tuttavia: la verità della vita coincide con la vita stessa e non con la volontà; tutto quello che siamo consegue all’esserci nel mondo, anche la libertà individuale, e non viceversa. Perciò l’eutanasia resta un caso estremo e contraddittorio; e, in ogni caso, non può essere giusto concedere legalmente che sia determinato dalla volontà privarsi della propria esistenza come espressione di un diritto soggettivo, evidentemente totalmente fuori dalla sua, e dalla nostra, portata e disponibilità.