La mancata approvazione della riforma costituzionale promossa dal governo Renzi, nel referendum confermativo del 4 dicembre scorso, ha spento i riflettori sui propositi di innovazione dell’assetto istituzionale.
Nel quadro politico confuso ed incerto che si è venuto a creare, dopo lo scossone impresso dalla vittoria del No, dell’argomento non si parla quasi più e gli esponenti politici si concentrano sul tema della legge elettorale, assolutamente ineludibile per ragioni contingenti, essendo ormai prossima la scadenza della legislatura. L’esito del referendum è sembrato configurarsi come una sorta di pietra tombale su decenni di elaborazioni e dibattiti sui ritocchi necessari alla seconda parte della nostra Carta fondamentale, alla luce di fragilità sistemiche ricorrenti.
La riforma arenatasi sullo scoglio del referendum del 4 dicembre conteneva talune innovazioni necessarie e ampiamente condivise, mentre, sotto altri profili, era oggetto di rilievi critici e diffuse riserve, soprattutto in ordine alla rimodulazione del sistema bicamerale che a taluni appariva troppo complessa e farraginosa.
Questo era, peraltro, l’aspetto della riforma più urgente e necessario, insieme alla ridefinizione del riparto delle competenze tra Stato e Regioni. Tornando prima o poi a occuparsi di queste materie, il legislatore dovrebbe munirsi di una serenità di giudizio e di un’attenzione “tecnica” che prescindano dalle passioni di parte che hanno ispirato, in larga misura, la campagna referendaria dello scorso anno.
A mio giudizio, le modifiche approvate dal Parlamento, in ordine alla redistribuzione dei poteri tra Stato centrale e Regioni – poi anch’esse respinte dal referendum – possono ritenersi, in larga misura, condivisibili e valide, ai fini di una maggiore funzionalità del sistema istituzionale. La riassunzione da parte dello Stato di alcuni poteri inerenti all’interesse nazionale avrebbe favorito un’omogeneità di livelli di intervento e di assistenza e un maggiore controllo della spesa che inciderebbero positivamente sulla qualità della vita dei cittadini, sulla sicurezza sociale e sui nostri conti pubblici sempre a rischio.
Se questa opzione resta comunque oggetto di riserve da parte dei regionalisti o federalisti più intransigenti, ampiamente condivise credo possano ritenersi altre innovazioni contenute nella riforma Boschi, come le doverose limitazioni previste per la decretazione d’urgenza, la fissazione della “data certa”, per alcuni più importanti provvedimenti, l’abolizione del Cnel.
La materia controversa, in sostanza, divisiva politicamente e tecnicamente suscettibile di migliore definizione, è costituita, invece, dal tema del bicameralismo, antico dilemma del dibattito politico-costituzionale. La maggioranza dei votanti ha espresso un voto contrario alla riforma, per ragioni diverse, legate tanto alle soluzioni normative prescelte dal legislatore, quanto al concreto svolgimento del dibattito, condizionato certamente dal serrato ancoraggio che si era venuto a creare tra le sorti del governo (e del premier allora in carica) e la riforma dallo stesso proposta.
Si avvertiva, inoltre, una diffusa preoccupazione sugli effetti della combinazione tra le previsioni della riforma e la legge elettorale per la Camera, approvata nel 2015 (l’Italicum). E, non essendo stato reso possibile il voto “spacchettato”, articolo per articolo e non avendo dunque l’elettore altra scelta tra un secco No e un secco Sì al testo di riforma, nella sua interezza, ciascuno avrà dovuto valutare le ragioni prevalenti a favore dell’una o dell’altra soluzione, esprimendo forse un No, anche condividendo alcune delle innovazioni introdotte, così come altri avranno votato per la conferma della riforma, pur serbando riserve su non pochi passaggi.
Non credo si possa quindi affermare che il popolo italiano abbia espresso, in modo inequivocabile, la propria preferenza per la conservazione, “senza se e senza ma”, del bicameralismo perfetto e che, dunque, il tema della riforma di questo modello debba ritenersi definitivamente archiviato. Modificandosi testo e condizioni, sull’argomento si potrebbe e si dovrebbe tornare.
Il bicameralismo perfetto – approvazione delle leggi da parte di entrambe le camere, in identico testo e in votazioni separate, doppia fiducia al governo, votata quindi da Camera e Senato – presenta certamente pregi e potenzialità rispondenti all’esigenza di una legislazione adeguata e ponderata e concorre alla garanzia della tenuta del sistema democratico. Ma ha dimostrato una certa inclinazione al rallentamento della produzione legislativa e delle iniziative di riforma e una generale tendenza a rendere più complessi i processi decisionali del Parlamento.
La “doppia fiducia” all’esecutivo, da parte di due camere votate con leggi elettorali diverse e da una base elettorale diversa (diversi sono i limiti di età per l’elettorato attivo, oltre che per quello passivo) crea più sensibili difficoltà nella formazione delle maggioranze di governo, determinando condizioni di maggiore precarietà delle stesse. Ma se il bicameralismo perfetto da noi resiste, forse la ragione risiede nelle sue origini “antiche”.
Mentre per le nazioni fondate sul sistema federale (Stati Uniti, Repubblica federale tedesca, Svizzera) il ricorso al bicameralismo è dovuto all’esigenza di assegnare due distinte rappresentanze rispettivamente al popolo e agli stati membri, in Italia, il cui processo di unificazione si è realizzato in base a una serie di annessioni territoriali (sia pure successivamente ratificate dai plebisciti) da parte di uno stato preesistente – quello sabaudo, sardo-piemontese, il Regno di Sardegna – e non in virtù di una spontanea associazione tra stati fondatori, al nuovo stato unitario fu estesa la costituzione dello stato sabaudo, lo Statuto Albertino del 1848, che prevedeva un sistema bicamerale paritario, con la Camera dei deputati, elettiva, sia pure su base censitaria e il Senato del Regno, i cui membri erano nominati dal sovrano.
Lo Statuto si era storicamente configurato come una gentile concessione del re, sia pure in virtù di spinte e fermenti che maturavano, in quell’anno “magico” che scosse l’Italia e l’Europa. Gli equilibri e le condizioni culturali implicavano ancora una forma di condivisione del potere tra il Re e il popolo che si rifletteva necessariamente sul regime parlamentare che assumeva carattere “duale”. Popolo e sovrano costituivano due distinti centri di autorità, due ordini di poteri sovrani. Ciascuno dei due doveva essere rappresentato e politicamente garantito da una “propria” camera di riferimento e queste due camere, in base a tale esigenza, furono configurate in una posizione tendenzialmente paritaria, nei poteri e nelle funzioni. Una differenziazione era fissata dalla norma ex art. 10 dello Statuto Albertino che escludeva ogni potere di iniziativa e di emendamento del Senato in materia finanziaria. Tale norma non fu però reintrodotta nel nuovo testo costituzionale del 1948 che rendeva così le due camere ancor più “paritarie”. La comune investitura elettiva delle due nuove camere repubblicane non avrebbe, infatti, giustificato, a giudizio dei costituenti, l’assegnazione ad una di queste di una posizione di rango inferiore, o comunque una penalizzazione, in termini di poteri, dell’una rispetto all’altra.
L’art. 55 stabilisce che il Parlamento è composto dalla Camera dei deputati e dal Senato della Repubblica, l’art. 70 assegna alle due camere, collettivamente, l’esercizio della funzione legislativa e, allo stesso modo, da entrambe il governo deve ottenere la fiducia, secondo la norma ex art. 94. Queste norme possono ritenersi i cardini costituzionali su cui poggia il bicameralismo perfetto vigente nel nostro ordinamento.
Si può ritenere che l’opzione per questo modello, nella piena parità tra le posizioni delle due assemblee, prevalse su proposte di segno diverso per consentire una più attenta ponderazione dei provvedimenti di rango legislativo, attraverso una doppia lettura e una doppia approvazione in identico testo. La garanzia di questo supplemento di ponderazione veniva conseguita affiancando alla Camera dei deputati un Senato che dalla stessa si differenziava per l’età minima molto più avanzata dei suoi componenti (e anche per la differenza nell’età minima degli elettori) e per il minor numero dei componenti stessi (la metà di quelli della Camera, a parte i senatori a vita).
Il Senato doveva rappresentare così, nelle intenzioni dei costituenti, la cosiddetta “chambre de réflexion”, il momento di raffreddamento delle passioni. La sua elezione “a base regionale”, ex art. 57, primo comma, della Costituzione, ne avrebbe garantito, peraltro, più ancora negli intenti iniziali, che non nella prassi concreta successiva, la maggiore capacità di interpretare le istanze e le esigenze locali, un più efficace raccordo con i territori, tenendo conto del sistema di decentramento regionale previsto dalla Costituzione stessa e del conseguente insediamento delle relative istituzioni (consigli e giunte regionali) dotate di competenze legislative e amministrative.
La scelta dei costituenti presentava certamente pregi non trascurabili, consentendo una più attenta valutazione della qualità e dell’efficacia dei testi normativi e ampi margini temporali e procedurali per correggerne ed emendarne i contenuti. I caratteri distintivi delle due camere ricomprendevano inizialmente, oltre agli aspetti citati (età minima dell’elettorato attivo e passivo, numero dei componenti, sistema elettorale “a base regionale”, per il Senato) e alla presenza di membri “a vita” al Senato, anche la durata in carica delle camere stesse (cinque anni la Camera, sei il Senato, fino a quando la legge costituzionale 2/63 non l’ha equiparata, fissando i cinque anni anche per il Senato che, comunque, nelle precedenti legislature, era stato sciolto in anticipo, proprio per abbinare ogni volta la sua elezione con quella della Camera) e non hanno determinato, in genere, particolari disarmonie e contrasti tra le due assemblee, dato il ruolo di cerniera svolto dai partiti, organizzati su base nazionale. Ma con l’evoluzione del quadro politico e dei sistemi elettorali, il nostro modello bicamerale ha evidenziato criticità che ingenerano preoccupazione, in ordine alla stabile funzionalità del sistema. In particolare, leggi elettorali diverse, per ciascuna delle due Camere, possono determinare equilibri diversi all’interno di ciascuna di esse, pregiudicando le condizioni di governabilità. Questo era un rischio che ricorreva, in epoca repubblicana, anche nei lunghi anni in cui è rimasto in vigore il sistema elettorale fondato sulla “proporzionale pura”, ossia fino al 1993. Il sistema era, infatti, proporzionale per entrambe le Camere, ma si configurava tecnicamente con modalità diverse, con i collegi uninominali, nell’ambito di circoscrizioni regionali, per il Senato e le liste concorrenti, con preferenze, per la Camera.
All’epoca, tuttavia, la maggiore fluidità delle maggioranze, spesso mutevoli nel corso della stessa legislatura, consentiva al sistema dei partiti di trovare temporanei rimedi e “stampelle” improvvisate, affinché quadrassero i conti, laddove la squadra di governo non disponesse, inizialmente, dei numeri necessari per ottenere la fiducia di entrambe le camere. Ricordiamo le “astensioni”, gli “appoggi esterni”, qualche apporto “spurio”, rispetto alle linee strategiche del governo del momento. Con l’avvento del maggioritario, queste forme di rimedio dell’ultima ora sono apparse, tuttavia, superate ed anacronistiche, incoerenti con le esigenze di chiarezza del quadro politico – e di trasparenza, nei confronti degli elettori – che ispiravano il nuovo sistema, con alleanze contrapposte, già precostituite e ben definite, prima delle elezioni. Tanto il cosiddetto mattarellum del 1993, infatti, quanto la successiva legge Calderoli del 2005, pur diversi nei contenuti sistemici, erano ispirati dall’intento politico di realizzare un bipolarismo dell’alternanza, consentendo alla coalizione precostituita, uscita vittoriosa dalle urne, di governare in condizioni di autosufficienza e, possibilmente, per l’intera legislatura. E anche se, in questi ultimi mesi, si avverte una certa nostalgia per il proporzionale e per le alleanze concluse dopo il voto, una volta valutato l’esito dello stesso – anche in virtù dell’assetto “tripolare” che ha assunto il sistema politico, agli inizi della presente legislatura – difficilmente la tendenza alla preventiva chiarezza delle alleanze e alla “certezza” del vincitore, favorita dal sistema maggioritario, potrà essere accantonata.
Proprio nel corso di questo ventennio, in cui le elezioni politiche sono state regolate in base al principio maggioritario, gli equilibri nelle due Camere si sono talvolta configurati in modo diverso, con la coalizione uscita vittoriosa dalle urne che, tuttavia, non otteneva la maggioranza assoluta dei seggi in entrambe le camere, ma in una soltanto, oppure ne conseguiva una piena, in una delle due assemblee e una assai risicata e a rischio nell’altra. Un supplemento di iniziativa per contenere questa deriva non dovrebbe ritenersi dunque né inutile, né fuori tempo massimo. L’attribuzione del voto di fiducia ad una sola Camera semplificherebbe la formazione della maggioranza parlamentare – in linea con il risultato elettorale della camera “politica”, investita del potere di votare la fiducia – e del governo.
Rispetto alle competenze legislative delle due Camere, forse non si rivelerebbe neppure necessario un nuovo sforzo di elaborazione, sarebbe sufficiente estrarre da cassetti polverosi modelli già proposti o, comunque, dibattuti in dottrina e anche, talora, applicati in altri paesi. Anch’essi finalizzati a limitare, o rimuovere, lunghe “navette” legislative o rischi di laboriose trattative ad oltranza su riforme e provvedimenti, a ridurre la mole di lavoro che grava sulle due camere.
L’Assemblea costituente aveva respinto una proposta che forse avrebbe consentito il superamento delle criticità derivanti dalla “doppia fiducia”. Il testo affidava alle camere riunite tanto il dibattito – e il relativo voto – sulla fiducia al governo, quanto quello sulle leggi di bilancio. Oppure potremmo tornare all’ipotesi di differenziazione delle competenze e/o delle funzioni di ciascuna camera, tenendo conto del ruolo più “politico”della camera cui sia stato riservato il potere di votare la fiducia. A questo orientamento erano ispirate le riforme “mancate” di Berlusconi (2005) e di Renzi (2016), sia pure con modalità molto diverse e prevedendo entrambe, comunque, margini limitati o condizionati di partecipazione di ciascuna camera all’esame delle materie di competenza dell’altra. Un’altra ipotesi (cfr. C. Mortati, Istituzioni di Diritto Pubblico, Cedam 1975) era quella di lasciare, in esclusiva, alla camera “politica” l’attività legislativa e accordare all’altra il controllo sull’azione amministrativa (il nuovo art. 55, previsto dalla riforma Boschi, assegnava, infatti, al Senato, tra le altre competenze, la valutazione delle attività delle pubbliche amministrazioni e la verifica dell’attuazione delle leggi dello Stato).
Un’attenzione particolare dovrebbe essere dedicata, a mio giudizio, ad un’altra “mancata” riforma, interessante e ancora attuale, quella approvata dal Senato in data 7 giugno 1990, relatore Leopoldo Elia, che definì il sistema ivi previsto “bicameralismo procedurale”. Questo testo prevedeva che Camera e Senato conservassero la condizione di parità voluta dai costituenti, con identici poteri. Rispetto all’attività legislativa, tuttavia, solo un numero limitato di leggi (individuate in base alla materia) sarebbero state approvate da entrambe le camere, con doppia lettura. Le altre, una volta approvate da una camera, sarebbero state comunque trasmesse all’altra. In tal caso, qualora la maggioranza assoluta dei componenti di quest’ultima camera – oppure il governo – non avesse richiesto, entro quindici giorni, che il disegno di legge fosse sottoposto alla sua approvazione, questo si sarebbe inteso definitivamente approvato. Il testo aggiungeva che successive richieste di riesame da parte di ciascuna camera avrebbero potuto essere deliberate soltanto, entro trenta giorni, dalla maggioranza assoluta dei suoi componenti.
Questa semplice innovazione, ispirata da un’altra luminosa figura di giurista cattolico, Roberto Ruffilli, vittima della violenza feroce e insensata del terrorismo, quasi trent’anni fa, avrebbe consentito il superamento delle duplicazioni, delle lunghe navette e dei ritardi procedurali.