(È in uscita “Ritratti del coraggio di John Fitzgerald Kennedy”, pubblicato da Oaks editrice (pp.319, euro 24,00). È il libro più importante del presidente americano assassinato a Dallas nel 1963. Ma anche sorprendente perché rivela la vera ispirazione culturale e politica dello statista. Il saggio, che ebbe vasta risonanza quando uscì e l’autore era un giovane brillante senatore già proiettato verso la Casa Bianca, mette in risalto non soltanto i modelli ispiratori di Kennedy, ma anche il suo “sentire” conservatore. Che poi non lo sia stato schierandosi con il partito democratico vuol dire poco. Ma le pagine del libro non mentono e sarebbe bene, a cinquantaquattro anni dalla tragica morte, sul politico e sull’Intellettuale si aprisse una seria discussione, al di là delle passioni e delle strumentalizzazioni. Il saggio introduttivo del nostro editorialista Gennaro Malgieri, del quale anticipiamo ampi stralci, è un contributo alla ridefinizione della complessa figura di Kennedy non a caso definito “conservatore inconsapevole”)
John F. Kennedy, icona indiscussa dell’universo liberal, merita, a cinquantaquattro anni dalla tragica morte di essere riconsiderato al di là delle apparenze e delle strumentalizzazioni. Sarebbe ingiusto ritenerlo superficialmente soltanto un sostenitore dei “diritti civili” dimenticando che è stato anche un corrosivo critico del pacifismo, un nazionalista fedele nella sostanza alla “dottrina Monroe” del 1823 (completata dal corollario di Theodor Roosevelt che l’aggiornò nel 1904 e dalle interpretazioni estensive che ne venne fatta tra le due guerre del secolo scorso), un realista e non un sognatore il cui pensiero potremmo definirlo “politicamente scorretto” a fronte del radicalismo laico e liberal-democratico.
Per lungo tempo Kennedy è stato suo malgrado estrapolato dal contesto culturale che gli era proprio per assumerlo come simbolo assoluto di una “nuova frontiera” sconfinante nel variegato paesaggio politico di una immaginaria sinistra mondiale. Kennedy riportò il partito democratico dopo otto anni alla Casa Bianca, dove nel corso della sua breve permanenza ebbe modo di dimostrare all’America ed al mondo, in piena “guerra fredda”, che la politica che perseguiva difficilmente poteva essere declinata in maniera partigiana soltanto perché era animata anche da legittime ed encomiabili battaglie civili ed ideali non dissimili, nello spirito, da quelle che nel secolo precedente un suo predecessore repubblicano, Abraham Lincoln portò avanti, a cominciare dall’abolizione della schiavitù. Se i democratici ne hanno fatto un mito non per questo il Grand Old Party si è sottratto al suo fascino. (…)
Del resto il suo conservatorismo, per quanto atipico, emerge con sufficiente chiarezza, al di là delle pur legittime interpretazioni contrarie, dai suoi due libri che ebbero una straordinaria risonanza al tempo in cui li pubblicò, prima di essere eletto presidente degli Stati Uniti nel 1960. Curiosamente non vengono mai citati dagli apologeti improvvisati della sinistra europea che ha dovuto varcare l’Oceano per riempirsi la sacca di nuovi idoli dopo il fallimento del comunismo e l’insostenibile leggerezza di un socialismo talmente annacquato fino ad essere irriconoscibile nelle odierne declinazioni di un welfare inadeguato e deficitario. Hanno incontrato il Kennedy, che gli faceva più comodo. O meglio, se ne sono presi lacerti di pensiero buoni da legittimare se stessi, almeno così hanno creduto.
Se avessero sfogliato Why England slept, edito nel 1940, e Profiles in Courage, uscito nel 1956, quando era senatore proiettato verso la Casa Bianca, si sarebbero resi conto che il Kennedy “conservatore” mal si conciliava con l’idea che se n’erano fatti ed abilmente diffondevano per coprire la catastrofe abbattutasi sul loro mondo. Entrambi i libri, non a caso, furono pubblicati in Italia dalle Edizioni del Borghese, rispettivamente nel 1964 ed alla fine di luglio del 1960, a pochi giorni dalla nomination, con i titoli Perché l’Inghilterra dormì e Ritratti del coraggio, questo, nella prima edizione, con una lettera-prefazione di Luigi Einaudi sollecitata dal traduttore che ne promosse la pubblicazione, il letterato americano Henry Furst, compagno d’armi di D’Annunzio a Fiume, poi, nel dopoguerra, vicino agli ambienti missini.
Ritratti del coraggio maturò in Kennedy durante la convalescenza a Palm Beach nel 1955 seguita all’operazione chirurgica alla schiena. Il primo “abbozzo” di quello che sarebbe diventato il suo manifesto morale ed ideologico fu un lungo articolo intitolato “Modi di coraggio politico”. Lo inviò ad “Harper’s Magazine” che lo pubblicò incoraggiandolo così ad una ricerca meticolosa nella Biblioteca del Congresso, con l’aiuto del giornalista conservatore Herbert Agar, del materiale su cui avrebbe modellato il suo libro che uscì il 2 gennaio 1956 edito da Harper & Brothers intitolato Profiles in Courage.
Erano i “ritratti” di “eroi” della politica in quanto solleciti nel sostenere contro i loro stessi interessi (o di quelli dei partiti di appartenenza), gli interessi della nazione. John Quincy Adams, Daniel Webster, Thomas Hart Benton, Sam Houston, Edmund G.Ross, Lucius Lamar, George Norris, Robert A. Taft colpirono il giovane politico suscitandone l’incondizionata ammirazione. Ed ebbe indubbiamente coraggio Kennedy, sfidando l’establishment, nell’inserire tra i suoi profili proprio l’ultimo, quel Taft, senatore repubblicano dal 1938 al 1953 che si oppose tenacemente alla celebrazione del processo di Norimberga argomentando che quel Tribunale costituito per processare e condannare i vinti, minava i principi fondamentali della democrazia. Gli importò poco all’autore che venne subissato da critiche violente per questa sua scelta etichettata come “filo nazista”.
Ma la simpatia per Taft aveva comunque altre motivazioni, tutte politiche che afferivano alla dottrina che il vecchio conservatore esprimeva in seno al suo partito nel quale non era del tutto sempre compreso. Scriveva Kennedy che coloro i quali si scandalizzavano per le originali ed indipendenti pretese di posizione di Taft non capivano come il suo conservatorismo “contenesse un forte elemento di pragmatismo, che lo induceva a sostenere una intensa attività federale nelle zone inadeguatamente servite, a suo giudizio, dal sistema dell’iniziativa privata. Taft non riteneva che ciò fosse in contrasto con la dottrina conservatrice; il conservatorismo, secondo lui, non era irresponsabilità.
Così egli diede nuove dimensioni alla filosofia conservatrice; le rimase fedele quando toccò il livello più alto di prestigio e di potere, e la ricondusse al livello della responsabilità e della rispettabilità”. Non diventò presidente, come suo padre, perché non fu accomodante, ma si guadagnò l’appellativo di “Mister Integrity”. Kennedy ne era affascinato anche perché Taft veniva da una famiglia che aveva dato innumerevoli uomini politici all’America tutti con il carattere dell’ultimo rampollo e con lo stesso obiettivo: servire la nazione piuttosto che se stessi, al di là dei partiti e talvolta perfino delle aspettative degli elettori quando non coincidevano con il bene comune. “Nacque nell’integrità”, osservava Kennedy. Al Senato era conosciuto “come uomo che non violò mai un accordo, che non venne mai a patti con i suoi principi repubblicani profondamente sentiti, che non praticò mai l’inganno politico”. Harry Truman, suo acerrimo nemico, quando Taft morì disse: “Lui ed io non fummo d’accordo sulla politica, però egli conosceva la mia posizione ed io la sua. Abbiamo bisogno di uomini intellettualmente onesti come il senatore Taft”.(…)
Il libro fu pubblicato in Italia – dove le destre (anche questo è stato dimenticato) sostenevano Kennedy nella corsa contro Nixon – senza particolare risonanza anche se la prima edizione venne esaurita in breve tempo. L’idea di tradurlo, come accennato, fu di Henry Furst, collaboratore del “Borghese“, intellettuale americano che scelse l’Italia come sua seconda patria. Ammirava Kennedy sia perché cattolico come lui, sia per vita delle comuni origini irlandesi. Nel libro colse lo “spirito conservatore” che lo animava e lo considerò funzionale ai disegni della costruzione di una possibile destra in Italia, depurata dal pregiudizio neo-fascista e “luogo” di raccolta politica per tutti coloro che nutrivano profondi sentimenti anti-progressisti e laicisti. Gli articoli che Luigi Einaudi pubblicava sul “Corriere della sera” lo indussero a chiedergli una prefazione che l’ex-presidente scrisse in forma di lettera piuttosto deludente, tanto che nelle edizioni successive non venne riproposta. (…)
Dopo la vittoria delle primarie e la scelta della Convention del Partito democratico che confermò la candidatura di Kennedy alla presidenza il 3 luglio 1960, Furst, sul “Borghese” scrisse: “Siamo, da due anni, così convinti che il senatore John Fitzgerald Kennedy sarebbe stato il candidato alla presidenza degli Stati Uniti nel novembre 1960, che in questi giorni esce, per le Edizioni del Borghese, un libro del senatore, Ritratti del coraggio”. E così motivava il suo kennedysmo: “Le prossime elezioni verranno combattute esclusivamente, e si comprende, sulla politica estera . E la politica estera oggi vuol dire esclusivamente rapporti con l’Urss. Ora, soltanto la Chiesa Cattolica, nel mondo intero, offre la garanzia di una opposizione totale, intransigente, senza ‘se’ o senza ‘forse’, al bolscevismo e alla luce del nichilismo che minaccia di ingoiare la civiltà occidentale. Kennedy in tutti i suoi discorsi ha insistito su questa necessità…”.