Tra i paradossi di questa fase politica (tra magliette gialle, cani, dentiere, pensioni per tutti, sussidi di disoccupazione…) c’è una totale disattenzione rispetto a ciò che accade nella società e alle trasformazioni in corso a proposito di nuovi lavori e creazione di ricchezza.
Il lavoro tradizionale vivrà ancora, ovviamente, ma in un perimetro fatalmente destinato a comprimersi, a stringersi. Dentro quel perimetro, naturalmente, occorre ridurre tasse e burocrazia, per consentire comunque la migliore performance possibile, per incoraggiare le imprese tradizionali ad assumere.
Ma c’è comunque un limite fisiologico, reso inevitabile dalla crisi economica, dalle trasformazioni tecnologiche, dalla robotizzazione e dall’informatizzazione (che non possono essere esorcizzate a colpi di tasse o di approcci neoluddisti!). Ed è perfino superfluo dire che le risposte della politica “ufficiale” sono tutte inadeguate. Chi dice “più spesa e più sussidi” lavora solo per sciupare altre risorse pubbliche; chi dice “è colpa degli stranieri” per molti versi fa propaganda; chi dice “creeremo nuovi posti di lavoro tradizionali” sa che si tratta di una missione impossibile.
Esiste invece un altro approccio, quello di chi sa guardare anche alle risposte vibranti e innovative che vengono dalla società e dal mercato. Mi riferisco alla “gig economy”: non solo “lavoretti”, ma nuove forme di lavori indipendenti. E mi riferisco alla “sharing economy”, all’”economia delle app”, che oggi non sono più solo un divertimento per “fighetti”, ma una realtà economica in crescita spettacolare.
In Italia, tutto ciò potrebbe avere uno sviluppo immenso. Una grande quantità di italiani ha un’automobile, ad esempio. E l’80% degli italiani è proprietario di una casa. La macchina e la casa potrebbero essere lo strumento per farsi un reddito complementare, o in qualche caso un reddito principale.
E’ fatale che ci sia una risposta corporativa di alcune categorie (tassisti, albergatori, ecc): ma nel mercato c’è posto per tutti. Occorre far crescere la torta, anziché litigare su come tagliarla.
Quello che invece è inaccettabile è l’approccio dirigista, interventista, iper-regolatorio, di gran parte del ceto politico. La vecchia descrizione reaganiana degli statalisti tassatori è nota e purtroppo ancora valida: “se qualcosa si muove, tassalo; se si muove ancora, regolamentalo; se non si muove più, sussidialo…”. Troppi ragionano ancora così: appena qualcosa si muove nella società, ritengono essenziale ingabbiarlo tra tasse e burocrazia. E’ come se ci fosse un “horror vacui” per cui, se qualcosa non è regolato, anziché essere considerato – come sarebbe logico – libero, viene ritenuto illegale.
Serve un cambio di paradigma, e un generale arretramento dello Stato, dell’intervento pubblico, della legge.