Giovedì 29 giugno l’esercito iracheno ha preso il controllo delle moschea al Nuri di Mosul. Il mausoleo, luogo simbolo dell’Iraq (per dire, è riportato nelle banconote da 10mila dinari emesse dalla zecca di Baghdad), è stato completamente distrutto dallo Stato islamico mercoledì della scorsa settimana: i baghdadisti hanno incolpato un bombardamento americano, ma è evidente dalle immagini che si è trattato di una deflagrazione controllata.
EVITARE LA CONTROPROPAGANDA
Perché lo hanno fatto? Per evitare che quel luogo sacro per il Califfo diventasse oggetto dei selfie dei soldati liberatori. Martedì 21 giugno l’esercito iracheno aveva annunciato che il giorno successivo avrebbero lanciato un’offensiva verso la moschea, ma gli uomini dello Stato islamico li hanno anticipati distruggendola. Giovedì 29 i soldati delle forze di liberazione sono arrivati tra le rovine con un tempismo simbolico. Nella stessa data, tre anni prima, da quello stesso posto, il Califfo Abu Bakr al Baghdadi annunciava la nascita dello Stato islamico: ieri da lì ne è stata dichiarata (in modo certamente avventato) la fine.
LA PERDITA DELLA STATUALITÀ
Mosul, nonostante ci saranno contrattacchi, è ormai persa. Stessa sorte sta per toccare a Raqqa, la roccaforte siriana. Perdere i due simboli della statualità califfale è un elemento drammaticamente negativo per l’organizzazione di Baghdadi. Una dei principali punti di forza dell’IS è infatti aver creato uno stato, una territorio controllato e amministrato, che rappresentava materialmente l’oggetto delle promesse jihadiste: lottare per qualcosa di concreto, di materiale, non solo per la felicità del paradiso (insieme certamente c’è la viralità del messaggio populista anti-sistema, l’evocazione alla purezza spirituale, e tutto il resto). La caduta – che tra giorni, settimane, al più pochi mesi, sarà definitiva – delle due roccaforti è frutto di una collaborazione congiunta tra forze locali (in Iraq quelle regolari e alcune milizie-politiche sciite, in Siria quelle dello pseudo stato curdo siriano) e militari occidentali, che le hanno accompagnate con un coordinamento tattico/strategico a terra e con l’indispensabile copertura aerea.
LE CITTÀ DOPO IL CALIFFO
Un report compilato dal Combating Terrorism Center dell’accademia di West Point conferma con dati uno scenario per il futuro spesso evocato: in 16 città liberate dall’occupazione baghadista (11 in Iraq e cinque in Siria) le cose non stanno funzionando benissimo, e lo Stato islamico continua a essere un problema. Ha ripreso la forma di guerriglia strisciante clandestina che ha avuto fino al 29 giugno del 2014 (negli anni durante e dopo la Guerra d’Iraq), ha compiuto attentati letali, la minaccia è rimasta pervasiva: il sindaco di Falluja, liberata a giugno del 2016, vive ancora a Erbil, nel super protetto Kurdistan iracheno, per ragioni di sicurezza; la parte orientale di Mosul, la prima ad essere riconquistata a gennaio, ha fatto segnare un ritmo di 160 attacchi al mese; Ramadi, il cui controllo è sotto il governo iracheno da maggio 2015, è invece diventata il cuore delle stickly bomb, le bombe che vengono appicciate con adesivo a veicoli. Solo il 5 per cento dei 1468 attentati registrati nelle città liberate dall’occupazione dell’IS sono state azioni suicide: il 56 per cento sono attacchi a distanza, fatti con lanciarazzi o fucili da cecchino. Questo, spiega il report, al netto delle complicate situazioni politiche che si sono innescate in questi posti una volta cacciato il Califfato: chi governa? Come? Quanto? Dove? A marzo la città di Mabij, nel nord siriano, è stata oggetto di giorni di tensione tra turchi, americani e russi, tanto che per cercare di sbloccare la situazione c’è stato un vertice di altissimo livello tra i capi militari dei tre paesi che hanno deciso un’amministrazione locale temporanea.
QUEL SUCCEDE IN SIRIA RESTA IN SIRIA
Un aspetto che gli analisti di West Point hanno sottolineato è che tanto più le città liberate sono vicine a porzioni di territorio rimasto sotto il controllo dell’IS, tanto più alta l’intensità della guerriglia. Per questo continuare con la riconquista territoriale è cruciale. C’è anche un altro aspetto, che il delegato per la Casa Bianca alla Coalizione internazionale che combatte lo Stato islamico, Brett McGurk, ha spiegato alla giornalista Jenan Moussa di Al Aan TV (di Dubai): “La missione è quella di fare in modo […] che ogni combattente straniero che è qui, che si è unito all’ISIS da un paese straniero, ed è venuto in Siria, morirà qui in Siria”. McGurk, che era in visita alle truppe che combattono per riprendere Raqqa, ha spiegato dunque, per la prima volta esplicitamente, cosa la Coalizione pensa di fare per evitare i foreign fighters (molti europei) partiti per il jihad califfale rientrino nei propri paesi e creino là dentro uno scenario simile a quello analizzato da West Point: ammazzarli tutti prima che tornino.
(Foto: Brett McGurk alla base area di Incirlik, in Turchia, principale hub per le operazioni anti-IS)