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Innanzitutto vorrei condividere con voi e con Pietrangelo un’immagine con cui vorrei cercare di riassumere il suo bellissimo libro: quella dell’olivo saraceno che è stato peraltro immortalato, almeno questa la mia sensazione, in una delle bellissime foto di Priscilla Inzerilli che ha aperto in modo così suggestivo questo incontro.
L’ulivo saraceno è un topos della letteratura ma soprattutto della poesia siciliana. Lo evoca Quasimodo (murmure degli ulivi saraceni) e Sciascia nel suo Lessico Pirandelliano lo descrive così – Quell’olivo dal tronco contorto, attorcigliato, di oscure crepe; come torturato, e par quasi di sentirne il gemito. Annoso, antico”. Il gemito del pazzo dolore dell’amore, e della memoria. – Il sacerdote asperge la cassa con le ultime gocce di un’acqua che non è mai tanto benedetta quanto quella versata dagli occhi dalla memoria – Per dirla con Buttafuoco.
Fu con l’olivo saraceno che Pirandello, sul letto di morte, risolse la scena de “I giganti della montagna”, poco prima di farsi portare per firmare, per primo, il librone che viene posto nell’anticamera del morto. Il solito scherzo tutto Pirandelliano di firmare la partecipazione al lutto di sé medesimo!
E a proposito di scherzi, un po’ pirandelliani, vi cunto un aneddoto curioso che mi è capitato all’indomani dell’invito da parte dell’amico Francesco Palmieri a questo incontro.
Mi trovavo in Calabria nella casa dei suoceri. E un pomeriggio, mentre mi trovavo davanti alla grande biblioteca della loro casa, da dietro la vetrinetta, quella sulla sinistra, quella coltivata a poesie, prende e mi si fa incontro, tutto impettito, un volumetto un poco spelacchiato: Mohammed Iqbal – Ed. Guanda a cura di A. Bausani. Di fronte a un libro che si mette di taglio, e che per la vecchiaia quasi non teneva in piedi se non era per il tramezzo della libreria, che potevo fare se non prenderlo tra le mani e leggerlo?
Lo aprii, quindi, così come si fa con il mazzo delle carte quando si deve tagliare prima di distribuirle. In una pagina qualsiasi. E cosa capita? Mi si presenta una poesia dal titolo “Sicilia”.
Mi misi seduto perché capii che la questione si sarebbe fatta lunga e iniziai a leggere, più o meno così:

Sicilia
(Muhammad Iqbal – Ed.Guanda a cura di A.Bausani)

Nei tuoi antichi palazzi di chi è nascosta la storia?
Nel silenzio delle tue coste v’è accenno lieve di voce:
dimmi il tuo dolore dunque! Vedi io sono tutto dolore,
sono polvere d’anima, io, di quelli cui fosti dimora!
L’antico quadro riempi di nuovi colori, mostrati a me
qual eri,
e fammi tremare narrando d’antichi tempi le storie:
le porterò qual dono laggiù verso i lidi dell’India.
Io, qui, piango. Altri, laggiù, farò piangere ancora

Ora ditemi se non è il dolore pazzo dell’amore questo!

Proseguii nella lettura, anzi nelle letture. Che suoni e musicalità. Poesia e pensiero. Esattamente gli stessi ingredienti che troverete, se non lo avete già acquistato e letto, nel libro di Pietrangelo Buttafuoco.
Ma il ritrovamento, anzi l’apparizione, mi suonò prodigioso a maggior ragione dopo aver letto l’introduzione del curatore. Scoprii infatti che Muhammad Iqbal è il più grande poeta pakistano del 900. Cosa che collegai subito con quanto mi aveva detto Francesco e cioè che a questo incontro sarebbe stato presente Luca Maria Olivieri che della memoria fa missione proprio in Pakistan, nella valle dello Swat! Ecco. Rimasi amminchialuto.
Questi fatti confermano, dunque, una delle più belle cose che troverete ne “Il dolore pazzo dell’amore”: la differenza tra verità e realtà. Buttafuoco, come Sciascia e Pirandello, come ciascuno di noi nella propria vita, dà udienza a spiriti e fantasmi di persone e cose che fanno verità della realtà. A riprova sentite questo passaggio:

A chi sta per morire bisogna credere, sempre.
Ho tenuto la mano di zio Pino. Ho baciato il suo braccio infilzato di aghi. Ho posato la guancia nell’incavo del suo gomito e mi sono immerso nei suoi occhi, volti verso la penombra dell’ospedale. Ho cercato l’incresparsi del suo sguardo: un lago.
Fu da quell’acqua che zio Pino, prossimo alla morte, proprio in quella stanza fece apparire per me, perché ne partecipassi, suo nonno Nino, i suoi fratelli, i suoi cugini – ossia tutti i miei zii – radunati in una giornata di festa a Faccia Lavata, la contrada prossima alla Zolfara.
Zio Pino mi parla, e non è un naufrago che si dispera per tenersi a galla. Tuffato e travolto nell’eterno e nell’ignoto di una fatica di flebo e ossigeno, in quel salto ridiventa bambino; e mi parla mostrandomi se stesso marmocchio. Ha le guance piene perché sta mangiando di gusto i fichidindia; ne ha altri due nella mano destra, e due nella sinistra; con il piede indica al nonno, che sta sbucciando la frutta armato di coltello, gli altri fichidindia che vuole destinati a sé, mentre i fratellini e i cuginetti, in attesa di avere anche loro il premio, se ne stanno in fila, dietro di lui che è il più piccino. E aspettano inutilmente, perché il nonno solo a lui, così coccolato e vispo, destina i frutti più buoni; e gli altri marmocchi, nipoti allo stesso modo, pur nell’egoismo dell’infanzia vogliono bene al piccolo Pino, e senza troppa foga né troppa speranza, spingendosi l’un l’altro, pigolano:
«A ‘mmia, a ‘mmia!»
Tutto questo mentre il nonno porge un altro frutto sbucciato al piccolo Pino e gli dice:
«Pi’ ‘ttia, pi’ ‘ttia!».

Ecco, siamo in ospedale e siamo però anche in campagna. E zio Pino, con il vento leggero del suo respiro, mi fa vedere quella scena in maniera così vivida che, pur in ospedale, io sento la carezza delle foglie del gelso, ancora oggi generoso a Faccia Lavata. E respiro il profumo del grano che risale i declivi della Curva ‘o Monaco, l’ultimo tornante di collina che apparecchia la visione di Leonforte per chi viene dalla valle di Kore. E zio Pino, giunto alla sua ultima ora, mi svela il segreto pazzo dell’amore sussurrandomi il ricordo di quella giornata di fichidindia, aggrappato alla lama di nonno Nino.
Sono uscito dall’ospedale. Ho salutato tutti. Ho mandato un ultimo bacio a lui varcando la soglia della stanza, a lui che non avrei più rivisto con quel lago di luce, il suo sguardo – con quel lieve vento, la sua voce – e mi sono ritrovato per strada. A Catania hanno un sesto senso per riconoscere i paesani. Proprio davanti al Vittorio Emanuele, l’ospedale, mi ha fermato un tipo, mi ha mostrato il carico della sua Lapa e mi ha detto:
«Se li prendesse questi belli fichidindia, se li portasse al paese!».
Mi sono infilato in un vicolo, ho chiamato al telefono Elsie e mi sono fatto un pianto di pazzo amore, facendo piangere pure lei col racconto della giornata di Faccia Lavata, con tutta quella vita di ieri precipitata, con le voci e l’allegria pur nella stanza d’ospedale.
Poi ho asciugato le lacrime, ho fatto la faccia finta, ho sorriso all’ambulante e, con il piede, perché stavo soffiandomi il naso, ho indicato un paniere pieno messo accanto alla ruota del motocarro:
«Me le dia tutte. Le porto tutte al paese!»

Mentre mi raccapezzavo, euforico per la scoperta che mi aveva spianato la strada a quello che sto a raccontarvi, tra le poesie di Iqbal trovai le parole giuste per l’occasione con tanto di dedica a me che leggevo e a voi che a ascoltate:

Al Lettore
(Muhammad Iqbal – Ed.Guanda a cura di A.Bausani)

Tempo e spazio altro non sono che scherzi del Pensiero
mio eterni.
Sono il liuto del Destino e ho dentro cento ascosi canti,
e ogni volta che il plettro dell’Idea ne tocca le corde, ecco
dolci risuonano[..]

Versi bellissimi di questo Dante d’Oriente, che fanno il paio per ritmo e profondità con Pietrangelo qui:

Il mondo di ieri è come il silenzio che viene incontro quando si entra in una casa svuotata ormai e fatta ricordo dal destino. […]
E sono ingressi impegnativi quelli nelle case fatte vuote. Ci sono porte da forzare e quel ritornare dove c’era stata la vita non è mai un giro a ritroso nel tempo.
Piuttosto una sovrapposizione di piani. Di ieri e di oggi. Perché i fantasmi dei mobili innevati dalla polvere di calendari accartocciati da decenni d’addio, travolgono con un frastuono di voci.

E poi Luna.

La Luna
(Muhammad Iqbal – Ed.Guanda a cura di A.Bausani)

***
O Luna! La bellezza tua è l’onore dei cieli
tu, che per antica natura t’aggiri adorante attorno a questo
santuario di terra!
Quel marchio che porti nel petto è cicatrice d’amore, o
forse è segno cocente di sempre viva brama?
Turbato io qui sulla terra, inquieta tu alta nel cielo, noi
siamo in eterna ricerca, tu cerchi e cerco pure io.
Forse della stessa santa Assemblea candela è l’uomo e tu
pure? Forse la tua ultima tappa e quella cui anch’io,
viandante, m’avvio?
E su pianori e deserti, e ampi campi e montagne
identico brilla il tuo volto lucente, come sul cuore dell’Uomo!

E Buttafuoco di rimando :

Ed ora calò tra noi lei: la Luna.
Dalla sabbia delle clessidre la Luna solleva un potente vento e si curva nella volta dei cieli per contenere da man dritta a mano manca tutti coloro che si sottrassero alla tomba.
Simile al colore del sale è l’inquietudine di coloro che godono dei segni del tempo, come quel mangiare il cuore, palpitante di vana vita.

Buttafuoco, come i grandi, è capace di trovare un raccordo tra l’inno che guarda l’Alto e il lirismo precipitato dei fatti della quotidianità più spiccia. La capacità di svelare, nella semplicità di un gesto, nel fatto più popolare, la poesia che vi è dentro. Fa piangere e fa ridere nel voltar di una pagina. Lasciatemi, quindi, concludere con un collage fatto di rime tratte dalle poesie di Ignazio Buttitta, poeta dialettale siciliano, e stralci tratti da “Il dolore pazzo dell’amore”. Spero vi troverete come me un lirismo allegro, ironico e autentico con cui vi ringrazio.

U barberi fimminaru
(da Paglia Bruciata di Ignazio Buttitta – Ed.Feltrinelli)

Lu barberi radi e tagghia;
Carolina spinna pulli
vannu e venu pila e pinni
senza busti e francubulli

Don Antonino, barbiere, va dal morto per raderlo
ad ogni colpo di rasoio il morto calava e cchianava a seconda del pelo e del contropelo.

lu cornutu è analfabeta
ma pi nasu ngran cannuni
ciauriava lu bigliettu e sintia fetu di sapuni

M’incantava vedere la spuma di schiuma formarsi nel mulinare del pennello.
La cosa più bella era appunto quel montare la schiuma da barba, tanta da far sprigionare l’odore di mandorla e solo adesso ho capito cosa fosse: il presagio del cianuro.

La Paglia bruciata
(da Paglia Bruciata di Ignazio Buttitta – Ed.Feltrinelli)

I ricordi sono nodi.
Li scioglie il tempo.
[..]
Il ricordo non suppone;
parla con la mia voce,
[..]
Il ricordo non ha voce.
parlava di donne;
e s’infervorava
come i preti se nominano i santi
o gli ubriaconi ubriachi
quando parlano di vino 

E dunque ora scrivo di corsa come fossi in sala operatoria col dubbio serio di cavarmela e concludo in fretta come a essere davanti al muro sugoso di una cella, con l’incubo di non uscirne più, come tra le assi di una cassa foderata di zinco dentro alla quale diventare liquame, gas e poi esplodere. E quindi scrivo in fretta acchiappando gli ultimi istanti di vita che, si sa, sono solo i ricordi. Ma il mondo di ieri non è ricordo, è il lievito. Sano, solido e vivificante.

Buttafuoco e "Il dolore pazzo dell'amore". Il testo del mio intervento alla presentazione

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