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Alain Delon si aggira per un lungo chiostro, emaciato da una notte che è terminata da poco con il farsi dell’alba. Sbircia nella camera da letto e lei, Monica Bellucci, è tra le lenzuola che paiono le onde che vanno calmandosi dopo una lunga tempesta. Lui Alain va nel salone e stringe a sé la pelliccia di lei. Si strugge e la stringe rievocando i profumi e la morbidezza di lei. Così, lo spot dell’Annabella, tanti anni fa.
Il Dott. Ravizza ci aveva visto giusto. La democratizzazione dei consumi, iniziata con l’avvento dei Grandi Magazzini, pensiamo alla Rinascente che fu benedetta persino dalla Chiesa, andava ora trasferita anche ai prodotti di lusso. Alle pellicce, un tipo di abbigliamento fino a qualche tempo prima appannaggio di pochi.
Giuliano Ravizza figlio di Gilio, il riferimento numero uno della sartoria in Pavia, pur avendo studiato da medico, essersi laureato con il massimo dei voti e aver esercitato per alcuni anni la professione, alla morte del padre decide di fare quadrato attorno all’impresa di famiglia e della sartoria ne fa l’azienda leader nella vendita di capi in pelle.
Il contesto è quello giusto. Siamo verso la metà degli anni 60. Al cinema, nel 1956 avevano dato “Una pelliccia di visone” con Giovanna Ralli e Monica Vitti. I due protagonisti del film, Franco e Gabriella, rappresentano gli elementi di base dell’edificio sociale su cui si fondava la neonata nazione che voleva fare il boom. Lui disegnatore tecnico industriale, lei impiegata in un grande magazzino. Impiegati in quel terziario che si sta facendo largo con troppa velocità su di un embrionale sistema produttivo confondendo cause ed effetti economici. Quando, per Natale, l’azienda di lui gli fa dono di un pacco in cui tra spumante e panettone c’è una cartolina per partecipare all’estrazione di un visone che i due si aggiudicano, la coppia pensa subito a convertire il visone in denaro secondo una logica più arcaica che edonista. Ma la tentazione di indossare la pelliccia è tanta. Troppa. E non appena Gabriella si guarda allo specchio, vestita del visone, non resiste al richiamo della foresta. E lei moderna Eva mangia la mela. E questa volta, oltre al vizio, non intende perdere neanche il pelo.
Pochi anni dopo nel 1963, l’icona del pubblico femminile Liz Taylor è a Milano per presentare Cleopatra, il film più costoso di tutti i tempi, allora. Film dove lei, la Liz è quasi sempre svestita. In fondo in Egitto la temperatura lo consente. Ma a Milano, in occasione della prima, con un Vittorio De Sica e un Nino Manfredi in prima fila, la proiezione è preceduta da una sfilata di modelle, manco a dirlo, in pelliccia.
Su quest’humus si sviluppa l’idea imprenditoriale di Giuliano Ravizza. La pelliccia diventa capo da prêt-à-porter. E l’Annabella il riferimento assoluto in Italia. Un caso di marketing di successo che fu studiato per anni nelle scuole di management.
La storia di Giuliano Ravizza fa venire alla mente quella di Charles Paterno. Anche lui medico che, alla morte del padre, preferì abbandonare la professione per cui aveva studiato per portare avanti l’impresa di famiglia. Il padre era un piccolo imprenditore edile nel nuovo mondo, Charles divenne uno dei più grandi costruttori di Manhattan.
Anche in quel caso grandi intuizioni vollero dire grande successo. A dimostrazione che, a rileggere la storia, anche partendo da uno spot eletto a biglia di un flipper cerebrale che accende le sinapsi per far luce tra gli scaffali della memoria, si scopre che non è vero che la generazione di prima ha fatto sempre meglio di quella successiva. A dimostrazione del fatto che quello che conta sono le inclinazioni personali, la determinazione e, appunto, le intuizioni.
E questo dovrebbe valere da monito a maggior ragione oggi che è un tutto un piagnisteo. Dove i rampolli non è che sono proprio tutti cervelli in fuga. Ecco.

L’Italia edonistica degli anni 80 fece ricco Ravizza e la sua azienda. Altri tempi certo. Che non spiegano da soli tanto successo senza considerare la straordinaria azione mediatica che consentì a un’azienda di abbigliamento con un unico punto vendita di vendere in tutta Italia. Il segreto fu il ricorso a testimonial importanti prelevati dal mondo del cinema che si alternavano negli spot televisivi che aumentavano di pari passo alla sempre più copiosa offerta di canali televisivi della nascente TV commerciale. Grazie al ricorso a tutti gli strumenti più sofisticati del marketing e della comunicazione come ad esempio le sponsorizzazioni sportive, l’Annabella divenne sinonimo di pellicce e del sogno di un lusso per tutti.
Della pelliccia si potrebbe dire come per le crociere parafrasando Michele Serra in un editoriale, durissimo sull’antropologia dell’italiano medio, del 2005: – le pellicce sono un allestimento scenico per poveri che almeno una settimana all’anno vogliono sentirsi ricchi – . Ed è proprio così. A maggior ragione se penso a quante pelletterie nacquero nel Sud Italia, anche in comuni dal clima caraibico dove, per pur mettere almeno una domenica sera all’anno la pelliccia, ci voleva il condizionatore ascellare.
Altri tempi, un’altra Italia. Giuliano Ravizza visse l’esperienza del rapimento. Ostaggio prima in Piemonte e poi in Calabria. Quasi non ce la si ricorda più quella terribile stagione. Oggi che sequestri non ce ne sono più, per fortuna, gli imprenditori sono ostaggio del fisco e, un po’, di loro stessi.

Annabella: quante cose ci dice uno spot

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