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I conti nazionali dell’Istat sono sempre un’occasione di riflessione, sempre che uno abbia voglia di scrutarli in lungo e largo.

Vale per la statistica ciò che si dice di tante materie tecniche, ossia che sia disciplina arida e ostica. Epperò, scorrendo in filigrana i dati, e con l’umiltà che ben si conviene a tanta complicazione, nel deserto dei numeri spuntano qua e là piccole oasi di informazione che ci permettono di capire di noi stessi assai più di quanto riportino le cronache, quelle sì aride, di tanta informazione mainstream.

Prendiamo il dato sul prodotto. Ormai saprete perché ve l’hanno urlato chissà quante volte, che il volume della produzione si è contratto dell’1,9% nel 2013, confrontandosi questo calo con l’aumento dello stesso livello (però positivo) del prodotto negli Usa e in Gran Bretagna, in un anno in cui persino il deflazionario Giappone è cresciuto dell’1,6.

Peggio ancora, analizzando la composizione di tale prodotto, scorgiamo che i consumi finali, privati e pubblici, sono calati del 2,2%, gli investimenti fissi lordi crollati del 4,7, e l’export è aumentato di un risicatissimo 0,1%, ai confini dell’errore statistico, salvandosi il saldo commerciale solo grazie alla contrazione del 2,8% dell’import, che rima bene con il calo dei consumi finali.

Fin qui ci sarebbe poco da aggiungere. Salvo il fatto che primeggiamo nella assai trendy moda della decrescita, visto che stiamo sotto, per volume del Pil, al livello del 2000. Se imparassimo ad essere felici, in questa costante decrescita, potremmo pure finirla qua.

E invece non è così. Siamo tristi e arrabbiati. Così ci dicono tutti i giorni.

A bene vedere un motivo di tristezza, o almeno di rimpianto, potremmo trovarlo andando a scrutare il conto delle amministrazioni pubbliche. Scopriremo che delle tante previsioni sbagliate dal governo uscito, quella che fa più male, è quella sull’avanzo primario, che si prevedeva, ancora a fine settembre scorso, arrivasse al 2,4%, e che invece l’Istat inchioda al 2,2%.

Due decimali di Pil sono circa tre miliardi. Una bazzecola viene da dire.

Ma, vedete, il rimpianto non nasce dal fatto che chissà dove andremo a recuperarli questi tre miliardi. Il rimpianto nasce dal fatto che, ancora una volta, non siamo stati capaci di sfruttare la congiuntura positiva sui tassi, il famoso spread calante, per aumentare l’avanzo primario.

Detto in parole semplici: abbiamo speso meno per gli interessi sul debito, ma il risparmio non è bastato a mantenere l’avanzo primario del 2012.

In sostanza, ne abbiamo rosicchiato un pezzo (era il 2,5%, nel 2012) e siamo pure riusciti a decrescere (in)felici.

Sappiamo già che l’avanzo primario può essere definito, e meglio ancora compreso, considerando il rapporto che c’è fra l’indebitamento netto della PA (differenza fra totale uscite e totale entrate) e gli interessi che paghiamo sul debito pubblico. L’indebitamento netto, ossia il deficit fiscale, è quello che dobbiamo riuscire a tenere sempre al massimo al 3% del Pil per non avere scocciature europee.

Sommando algebricamente il deficit e l’avanzo primario, otteniamo esattamente la cifra che paghiamo per gli interessi sul debito. O, per dirla in altro modo, se avessimo un deficit pari a zero (tipo la Germania) il nostro avanzo primario pagherebbe gli interessi sul debito senza bisogno di fare nuovi debiti (ossia deficit) per pagare i vecchi debiti. Ciò in sostanza farebbe diminuire il debito pubblico totale (sempre come sta accadendo in Germania).

Nel 2013 in Italia è successa invece una cosa molto singolare. Gli interessi sul debito sono diminuiti, grazie al calo degli spread, passando dagli 86,474 miliardi del 2012 agli 82,043 del 2013. Quindi un risparmio di 4,431 miliardi. Solo che questo risparmio è stato assorbito interamente dal deficit, che infatti è rimasto pressoché costante (47,321 mld a fronte dei 47,356 del 2012), col risultato che è diminuito l’avanzo primario (da 39,118 mld a 34,722).

Se fossimo riusciti a rispettare le previsioni del vecchio governo, al contrario, quello 0,2% previsto in più di avanzo primario avrebbe potuto essere utilizzato per abbassare il deficit. Quindi sempre di circa 3 miliardi.

Vale la pena rilevare che il deficit è rimasto inchiodato al livello del 2012 innanzitutto per l’aumento delle uscite correnti (che comprendono anche gli interessi sul debito), passate da 752,082 mld a 756,404. In particolare sono aumentate le prestazioni sociali, passate dai 311,11 mld del 2012 ai 319,525 del 2013, e la voce Altre uscite correnti (da 40,359 a 43,211 del 2013) che non si sa bene cosa ci sia dentro. Gli aumenti di queste voci hanno più che compensato il calo delle altre. E persino il crollo degli investimenti (da 48,7 mld a 42,5) non è bastato a mitigare il deficit.

Anche perché se è vero che sono diminuite le uscite complessiva (spese correnti più spese in conto capitale), passate da 800,8 mld a 798,4, è vero altresì che sono diminuite anche le entrate complessive (da 753,5 mld a 751,6) per lo più a causa del crollo delle imposte indirette (da 234 mld a 225), quindi Iva, Imu e accise.

In sostanza, la registrata diminuizione della pressione fiscale, dal 44% al 43,8% del Pil corrisponde in decimali esattamente al calo dell’avanzo primario. O, per dirla diversamente, su aumentiamo le tasse aumenta l’avanzo primario, se le diminuiamo cala. Il deficit sembra inossidabile e davvero non si capisce come dovremmo arrivare ad un avanzo primario di oltre il 5% nei prossimi anni come prevedeva Saccomanni.

L’arida statistica, insomma, ci consegna l’immagine di un paese stremato dalla crisi che sta lentamento prosciugando il suo tesoretto (l’avanzo primario). Con la conseguenza che aumenta il debito pubblico, ormai arrivato al 132,6 del Pil dal 127% del 2012, senza che l’avanzo primario, ottenuto principalmente con l’aumento delle tasse, riesca minimamente ad incidervi.

Di più, i conti nazionale del 2013 gettano una luce sinistra sulle previsioni autunnali del passato governo. Dopo aver sbagliato la crescita prevista, che nel 2014 sarà ben più contenuta di quanto auspicato, e l’avanzo primario, rimane solo il livello dello spread che sembra ancora in linea con quanto scritto dal Tesoro in autunno.

Ma lo spread è l’unica cosa sulla quale il governo può fare ben poco.

Mangiarsi l’avanzo primario e decrescere (in)felici

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