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La settimana scorsa, proprio alla vigilia dei colloqui sul nucleare, due dissidenti iraniani hanno scritto al presidente francese François Hollande. Emadeddin Baghi lo invitava a sostenere l’accordo, Heshmatollah Tabarzadi a bocciarlo. Una volta siglata la pax ginevrina – sosteneva Tabarzadi – nessuno oserà invocare il rispetto dei diritti umani in Iran, nessuno disturberà Hassan Rohani con improvvide pressioni sul rilascio di prigionieri politici o l’allentamento della censura. Il problema è che la comunità internazionale se ne infischia comunque dei diritti umani, iraniani o siriani che siano e allora tanto vale godersi l’allentamento delle sanzioni, più o meno 7 miliardi di dollari, che certo non sono risolutivi per la stagnante economia iraniana, ma visti da Teheran rappresentano la prima buona notizia da anni. L’ipotesi di uno strike si allontana, la borsa cresce,
e chissà che gli investitori non tornino a guardare all’Iran in termini di opportunità piuttosto che di rischio. Difficile pensare di volare più alto. Il regime è compatto nel limitare i danni perché alla fine nella tanto strombazzata “furbizia” dei mullah c’è tanta tattica e pochissima strategia. Dopo lo sconquasso dell’era Ahmadinejad, Ali Khamenei torna ad affidarsi agli uomini di mondo della sua nomenklatura. Adotta i sorrisi di Zarif ed i video alla “yes we can” di Rohani, ma percorre una via stretta in cui l’obiettivo è il damage control piuttosto che un ambizioso reset. Teheran vorrebbe discutere del futuro di Assad a Ginevra, muovere le sue milizie, rinsaldare vecchie alleanze (con Hamas ad esempio), fare l’occhiolino all’Ue e abbassare la temperatura dello scontro con Riad. A Washington, Teheran dice: parlami, accordiamoci su questo dossier che serve a entrambi (il futuro della legacy obamiana per gli Usa e il downgrading delle sanzioni per l’Iran) ma non ti avvicinare troppo. Cosa ne sarebbe dell’architrave ideologica del regime se la mano tesa di Washington si trasformasse in un abbraccio? Così le ambizioni restano circoscritte entro confini angusti: testare l’accordo in questi mesi, prolungarne l’interim se la soluzione finale non convincerà Khamenei e, nel frattempo, riguadagnare terreno nei salotti buoni della diplomazia internazionale. E se qualcuno ogni tanto torna a ricordare a Rohani la chiave, simbolo delle sue promesse elettorali libertarie, per molti altri sarebbe sufficiente trovare gli anticoncezionali in farmacia (letteralmente scomparsi l’estate scorsa) o il barbari (pane iraniano) a prezzi possibili.

Il dramma socio-economico dell’Iran non nasce con le sanzioni. Pesano certo i 60 miliardi di petrodollari l’anno che l’Iran non incassa più. Ma quando si guarda alla mappa del World Economic Outlook del Fmi relativo al 2013 (http://www.imf.org/external/datamapper/index.php) e si analizza la posizione dell’Iran unico paese (insieme alla Siria) nella regione in cui la crescita si contrae (del 2% ha stimato il Fmi, no, del 5% ha corretto Rohani) non si può dimenticare come è stato amministrato l’Iran negli ultimi trent’anni. “Né Oriente né Occidente” disse Khomeini e poi? Poi le nuove corruttele sostituirono le antiche, le industrie furono nazionalizzate, gli esperti perseguitati ed i cervelli cercarono destinazioni più consone a sviluppare i loro talenti. No è questione di essere pro o contro la rivoluzione del ’79. Quella che è stata tradita in questi trent’anni è la vocazione di un popolo all’innovazione e alla contemporaneità. Mentre Rohani sorride gli iraniani fuggono in Indonesia si infilano in imbarcazioni di fortuna pregando di raggiungere l’Australia e un futuro migliore. Immaginate con quali occhi da Teheran si guardi al successo della Turchia che negli ’70 aveva un pil due volte e mezzo inferiore a quello iraniano, pensate come si sente un iraniano quando sente che le Filippine, Il Ghana, la Nigeria sono i nuovi mercati emergenti. E l’Iran? L’Iran che negli anni settanta era un mercato emergente prima ancora che la parola venisse coniata si barcamena tra un piano quinquennale ed un altro. L’Iran ricco com’è di petrolio, di gas di minerali, di una geografia, di una storia e di un capitale umano come pochi, non è nemmeno parte del G20. I dirigenti della Repubblica Islamica si trascinano ai forum internazionali e poi saltano le cene perché vengono serviti gli alcolici, mentre i sauditi non si perdono né un affare né un banchetto.
Va dato atto a Rohani che è stato onesto nel descrivere i mali che attanagliano la società iraniana, il guaio è che per cambiare c’è bisogna di qualcosa in più di un “Gorbachev moment” a favor di telecamera. L’Iran è ormai il “sick man of the middle east” e non si può curarlo con l’omeopatia.

Non basta un "accordo storico" per salvare l'Iran

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