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Questo commento è stato pubblicato oggi sul quotidiano L’Arena di Verona

Anche in politica la matematica non è un’opinione. Ecco qual è l’esito dei conflitti fra Stato e Regioni davanti alla Corte Costituzionale: un risultato che suggella il fallimento legislativo dell’illusione federalista. Delle settantuno sentenze che la Consulta ha pronunciato quest’anno sui ricorsi promossi dal governo contro leggi regionali, nel 90,1 per cento dei casi Roma aveva ragione, a fronte del 9,9 in cui aveva torto. Nove volte su dieci le leggi provenienti dalle venti Regioni e dalle due province “autonome” di Trento e di Bolzano sono state bocciate. Né si può parlare di pregiudizio centralista. Fino a pochi anni fa l’esito delle controversie era molto diverso: nel 2004 le Regioni avevano la meglio nel 62 per cento delle controversie, e il governo solo nel 38.

Le cose sono cambiate col passare del tempo e l’applicazione della caotica riforma del titolo V della Costituzione oggi da tutti criticata. Ma all’epoca, 2001, esaltata come la panacea del federalismo che avrebbe reso più responsabili le amministrazioni e più vicini i cittadini ai loro eletti. La statistica del flop regionale non contempla, inoltre, l’attività dell’ufficio preposto presso gli Affari regionali anche a mediare con le amministrazioni di tutta Italia per segnalare rischi di incostituzionalità nelle loro leggi. Una novità che tiene conto del principio di leale collaborazione invocato dalla Corte Costituzionale in varie sentenze, e che ha portato a estinguere il giudizio in altri quattordici casi, proprio perché le Regioni hanno modificato i loro provvedimenti nel senso indicato dai rappresentanti dello Stato.

D’altra parte, non occorre essere giuristi per capire l’importanza della posta in palio. Qui è in ballo il dovere per ogni istituzione di rispettare sempre lo spirito e la lettera della Costituzione. E se questo non avviene nove volte su dieci nel caso del legislatore regionale, i motivi bisogna cercarli soprattutto nella demagogica riforma del titolo V, che oggi sembra figlia di nessuno.

Una riforma che, rovesciando la saggia e competente elencazione dei poteri fra Stato e Regioni prevista dai padri costituenti con l’articolo 117, ha devoluto alle Regioni “la potestà legislativa in riferimento a ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”. Dunque, tutto e il contrario di tutto, se si pensa alla quantità di materie che, dalla sicurezza ai rapporti internazionali, dalla ricerca all’istruzione, alla salute sono di tipica natura unitaria. Viceversa, troppe di queste prerogative sono state spezzettate e ridefinite “materie di legislazione concorrente”, cioè in condominio fra Parlamento e Consigli regionali. Grande confusione sotto il cielo senza che, oltretutto, sia stata prevista alcuna “clausola di salvaguardia” nazionale, pur vigente in tutte le Costituzioni federali del mondo.

E così a fronte degli scandali sulle spese pazze, con inchieste giudiziarie aperte a vario titolo in ben sedici Regioni sull’uso indecente del denaro pubblico, ora fa acqua anche la devoluzione, dodici anni dopo la sua enfatica introduzione. “Potremmo senza danno (lo sussurro e basta) sopprimere anche le Regioni”, ha scritto di recente il professor Giovanni Sartori, massimo politologo.

In altri tempi sarebbe stato sommerso dai fischi dei partiti. Oggi rischia di ricevere gli applausi di molti cittadini.

f.guiglia@tiscali.it 

Numeri e misfatti prodotti dalla devoluzione

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