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Mosca dice poco sugli esiti delle elezioni presidenziali statunitensi. Al di là di scontate dichiarazioni di apprezzamento per la figura del prossimo presidente americano e per le sue idee sull’Ucraina rese all’indomani del voto a un seminario del think thank governativo Valdai, nel corso della lunga campagna elettorale americana Vladimir Putin non aveva fatto mistero di prediligere la continuità dell’amministrazione democratica all’imprevisto. Al margine del Forum economico di Vladivostok del 5 settembre scorso, Donald Trump era stato descritto sinteticamente dallo stesso Putin come il presidente americano che aveva introdotto maggiori restrizioni alla Russia. Ma non c’è dubbio che siano ora in molti nella capitale russa (compreso Putin) a guardare con attenzione ai futuri sviluppi della politica estera americana, con particolare riferimento al conflitto in corso in Ucraina.

Non sono certo passati inosservati i diversi passaggi fatti da Trump nel corso della sua campagna elettorale sul suo personale impegno a porre fine a tutte le guerre finora sostenute dall’amministrazione democratica e, nel caso dell’Ucraina, sulla possibilità di raggiungere una tregua in pochi giorni e risolvere la questione in tempi relativamente brevi.

Sul piano negoziale la vittoria di Trump e la sua predisposizione a porre fine al conflitto in Ucraina se da un lato possono aprire nuovamente la strada alla diplomazia, dall’altro rischiano di indebolire la posizione di Washington prima dell’avvio di eventuali trattative.

Come aveva già dimostrato nel recente passato sia in Medio Oriente sia nel rapporto con la Corea del Nord, Trump predilige le iniziative personali e sicuramente sarà lui a occuparsi in prima persona del rapporto con Putin. La sua insistenza su una chiusura veloce di questa crisi incoraggerà i russi a tentare di alzare la posta delle loro richieste negoziali. Non è un caso che Mosca reagisca finora in maniera prudente all’elezione di Trump: vogliono prima vedere le sue carte e le vogliono vedere possibilmente da una posizione di forza.

Si è scritto moltissimo sulle ragioni che hanno spinto Putin a scatenare questo conflitto e, al di là degli errori di calcolo sulla sua durata, sulla capacità di resistenza dell’Ucraina e sull’unità finora dimostrata dall’Occidente a fianco del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, rimane una questione più che mai aperta che ha animato le discussioni tra Putin e i suoi più stretti collaboratori in questi anni di guerra: la sicurezza della Russia. Il quadro si è decisamente deteriorato: la Nato ha schierato in Europa orientale truppe pronte a intervenire e ha sicuramente migliorato struttura e coordinamento, l’ingresso di Svezia e Finlandia nell’Organizzazione hanno fatto del Baltico un “lago Nato” a ridosso delle coste russe e di San Pietroburgo, l’Ucraina – pur devastata dal conflitto e fiaccata nel morale delle truppe – dispone di armi molto sofisticate, in prospettiva di un numero crescente di caccia F16 e di un livello di addestramento dei suoi reparti che non aveva.

Ora più che mai Putin dovrà puntare sull’obiettivo prioritario della sua strategia: evitare l’ingresso dell’Ucraina nella Nato e ottenere così dall’Occidente concrete garanzie per la sicurezza della Russia. Prima che Trump si sia formalmente insediato nel gennaio prossimo, l’esercito russo continuerà la forte pressione lungo i diversi fronti per poter consentire ai negoziatori di Mosca di sedersi al tavolo di una futura trattativa da posizioni di forza. I reparti nordocoreani servono a ricacciare nei propri confini i soldati ucraini che hanno sconfinato nella regione del Kursk, consentendo all’esercito russo di continuare nella lenta e inesorabile avanzata nelle aree del Donbass ancora sotto il controllo di Kyiv.

Ma tutto ha un costo e questo vale anche e in particolare nella logica di Trump. Escluderei un disimpegno americano dall’area secondo il modello che abbiamo visto in Afghanistan. Siamo innanzitutto in Europa, area che rimane pur sempre di importante interesse strategico per Washington e l’enorme volume di risorse finanziarie finora impiegate dagli Stati Uniti a supporto del governo di Zelensky non potrebbero giustificare un accordo con la Russia senza condizioni che in qualche modo garantiscano anche la sicurezza di Kiev e quindi anche dell’Europa. La Nato, inoltre, è stata mobilitata e diversi membri hanno attivamente contribuito al sostegno dell’Ucraina. Un eventuale e graduale disimpegno americano dovrà comunque essere discusso in ambito Nato.

La trattativa passa necessariamente attraverso un modello che stabilisca in qualche modo garanzie reciproche di sicurezza alla Russia e all’Ucraina. Le fasce di sicurezza, le aree prive di missili di lunga gittata o armi letali fortemente offensive, la smilitarizzazione di zone del Donbass occupato dai russi ma anche di aree dell’Ucraina a ridosso dei confini della Russia e dello stesso Donbass potranno diventare elementi irrinunciabili per il raggiungimento di prime intese tra le parti.

Poi, naturalmente, ci sono le questioni territoriali, l’enorme mole di tematiche economiche che partono dal regime sanzionatorio, al congelamento dei fondi russi nelle banche occidentali. Un lungo negoziato in salita che difficilmente Trump potrà risolvere in tempi brevi. Tutto probabilmente passerà ora sopra la testa di Zelensky ma dobbiamo almeno evitare che passi completamente sopra la testa delle capitali europee. La necessità di Trump di imprimere accelerazioni e cambiamenti nei teatri di conflitto potrebbe contribuire ad aprire finalmente una stagione negoziale anche nella crisi ucraina ma bisognerà porre grande attenzione alle ragioni e suscettibilità delle parti con una sapiente miscela di concretezza, rispetto di principi ideali ma anche conoscenza delle ragioni storiche e culturali alla base di questo conflitto. La Cina farà valere il suo peso e la sua accresciuta influenza sulla Russia e pretenderà da Trump un addolcimento delle posizioni su dazi e tariffe. L’Europa rischia l’ennesima emarginazione e se rimane inerte anche in questa possibile nuova fase diplomatica, potrebbe pagare il prezzo più alto di intese a tre (Stati Uniti, Russia, Cina) sul piano sia politico che economico.

Henry Kissinger, interprete di altissimo spessore della realpolitik americana scevra dai condizionamenti ideologici dei democratici, in un suo libro pubblicato nel 2014 coglieva la sfida della politica estera americana in un mondo soggetto a grandi mutamenti geopolitici: “Per gli Stati Uniti la ricerca di un nuovo ordine mondiale passa necessariamente dalla necessità di conciliare la difesa e la celebrazione dei valori che sono alla base della nostra nazione con il riconoscimento delle tradizioni storiche e culturali delle altre regioni del mondo”.

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Di Giorgio Starace

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