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Questo editoriale di Federico Guiglia è uscito oggi sulla Gazzetta di Parma

Lei ha offerto per due volte le dimissioni, e lui per due volte ha detto di no. Lei e lui, Annamaria Cancellieri ed Enrico Letta, la metafora di un governo che sembra, e non soltanto per le origini del presidente del Consiglio, come la Torre di Pisa: pende, ma non cade. Oggi il ministro della Giustizia spiegherà al Parlamento perché s’è comportata bene, interessandosi alla salute di Giulia Ligresti, detenuta comune dal nome potente. Ma il Movimento 5 Stelle chiederà che Annamaria Cancellieri se ne vada proprio per come s’è comportata.

Ormai, però, lo scontro oltrepassa l’imbarazzante caso, e poco ha a che fare persino con le ragioni di umanità e della buona fede invocate dal governo per sostenere il suo ministro nella tempesta. A parte i radicali, che ne hanno fatto una storica e coerente battaglia, a nessuno preme un granché di dibattere sul serio sulle condizioni delle carceri e sull’opportunità che un ministro intervenga per porre l’attenzione sulla situazione di questa o quella persona. Oltretutto, come se l’intera amministrazione penitenziaria, e l’esercito degli avvocati e dei magistrati, e i riflettori della stampa fossero strumenti insufficienti per denunciare sofferenze, ingiustizie ed eventuali rischi per la vita dei reclusi. Ma tant’è.

Da tempo la politica ha scelto di snobbare i fatti e di ignorare i problemi di vita vissuta. I partiti preferiscono invece manovrare all’accademia delle promesse, delle polemiche, dei tanti “non detto”. Perciò si scrive “Cancellieri”, ma si legge “Letta”. Nel senso che colpendo il ministro, si spera d’affondare l’esecutivo. Questo spiega perché da una parte il Pdl difenda il ministro (rivedendo, inoltre, il film della telefonata del Cavaliere per Ruby, e perciò rimarcando l’imparità di trattamento), dall’altra perché nel Pd attendano la versione-Cancellieri alle Camere prima di esporsi nella difficile difesa. Forse non sarà solo un caso se l’ala renziana, timorosa che il futuro voto politico slitti alle calende greche, sia sul chi va là e conceda poco alle “ragioni umanitarie” del ministro sott’accusa.

Come se non bastasse, i convergenti paralleli del Pd e Pdl sul governo, proprio in queste ore sono dilaniati dalle crisi interne. A un mese dalle elezioni dell’8 dicembre per la segreteria con Matteo Renzi favorito, volano gli stracci nelle sezioni. Guglielmo Epifani, segretario uscente e non rientrante, deve riunire il vertice del Pd per mettere ordine nella “guerra delle tessere” e tra le contestazioni incrociate dei candidati.

Se il Pd se le canta, il Pdl se le suona. A sorpresa, Angelino Alfano ha riproposto le primarie per scegliere l’aspirante a palazzo Chigi e Raffaele Fitto, il suo eguale ma contrario, le ha subito respinte: “No, qui decide Berlusconi”. E così la costruzione del centro-destra di domani già s’impantana nel braccio di ferro di oggi, e negli effetti che ogni tipo di contrapposizione finisce per avere sul governo. Perché mentre il Pd e il Pdl preparano la successione di se stessi, mentre il Parlamento si divide sul ministro Cancellieri (e presto tornerà a spaccarsi sulla decadenza del senatore Berlusconi), la legge di stabilità è diventata figlia di nessuno. Pur essendo, fra tutte queste battaglie, l’unica utile per il destino dell’Italia. Sia sul versante del lavoro, caro al centro-sinistra, sia su quello delle tasse a cui è più sensibile il centro-destra, tutti reclamano “cambiamenti”.

Con questi chiari di luna, da un esecutivo di larghe intese ci si aspetterebbe una forte scossa per l’economia: altrimenti perché averli messi insieme, i Letta e gli Alfano di lotta e di governo? Il coraggio di grandi scelte e la capacità di spiegarle ai cittadini: almeno questo si pretende da una maggioranza che rischia, viceversa, d’essere presto cancellata, più che Cancellieri.

Cancellieri e il governo cincischiante

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