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Le grandi crisi portano sempre a rimescola­menti degli assetti di potere e anche l’Italia uscirà profondamente modificata da questa crisi finanziaria. Due sono le cause che han­no maggiormente inciso: la profondità della recessione e la crisi del debito. La recessione è stata profonda e lunga, tanto che solo alla fine del 2013 è attesa una qual­che timida ripresa: ossia ben 5 anni dopo l’i­nizio della crisi globale. Abbiamo perso quo­te significative di reddito e di produzione, la domanda interna è incredibilmente bassa e la disoccupazione dilaga. In queste condi­zioni molte imprese hanno perso gran parte del loro mercato e faticano a resistere. Fra di esse anche e soprattutto i settori regolati (finanza, trasporti, telecomunicazioni) che sono più vulnerabili alla domanda interna, perché le loro attività sono concentrate sul nostro Paese. Poiché in questi settori si erano rifugiati i grandi capitalisti italiani dall’epo­ca delle liberalizzazioni e delle privatizzazio­ni, ne è derivata anche una crisi dei grandi poteri, che hanno visto modificarsi talune convenienze, hanno subìto perdite e hanno cambiato strategia.

Chi è riuscito a conserva­re il proprio mercato, e ad ampliarlo anche fuori del Paese, è risultato vincente, mentre chi non c’è riuscito si trova oggi a dover ce­dere il passo, spesso a capitali stranieri. A sua volta, la crisi del debito ha reso meno agevole finanziare operazioni con il credito bancario e ha reso estremamente fragili cer­ti castelli societari costruiti per mantenere il controllo su più imprese, senza impiegare del vero capitale di rischio. Anche questo fattore ha giocato nel senso di modificare gli as­setti proprietari nel corso degli ultimi anni, posto che il controllo di grandi imprese ita­liane era assicurato da patti di sindacato e da debiti contratti con il sistema bancario che non riesce più a sostenerli in questa fase di crisi finanziaria e bancaria.

Di fatto, abbiamo assistito alla fine dei gran­di patti societari (patti di sindacato) volti al controllo delle grandi imprese e della finan­za. La necessità di dismettere quote di pro­prietà immobilizzate in patti di sindacato, la perdita di valore subìta a causa di una cattiva gestione di imprese controllate da troppi soggetti che avevano finalità e obiet­tivi diversi, l’esplodere di palesi conflitti di interesse nelle partecipazioni incrociate, l’i­nadeguatezza di membri di Consigli di am­ministrazione cooptati essenzialmente sulla base della fedeltà e delle relazioni, sono tutti fattori negativi che erano ben noti, ma che sono esplosi con la crisi globale.

L’epicentro del terremoto è stato il grumo di partecipazioni attorno a Mediobanca, che è esploso man mano che la crisi produceva i suoi effetti. Le vicende di Fonsai con la fami­glia Ligresti che aveva fatto da padrona, sor­retta dall’intreccio azionario, ha dato il via a un riassetto, che tuttavia era iniziato con l’avvicendamento nella gestione delle Ge­nerali e la chiara determinazione del nuovo ceo, Mario Greco, di abbandonare la logica delle partecipazioni strategiche. Si sono così liberate le scatole che detenevano Telecom Italia e Rcs, anche se nel primo caso è an­cora in corso il processo di dismissione. Si è poi assistito all’alleggerimento del patto di sindacato di Mediobanca, che a sua volta ha anch’essa ridotto il numero delle partecipa­zioni considerate strategiche.

Ed è in questo contesto che è esplosa la crisi di Alitalia, al­tro esempio di patto di sindacato “di siste­ma” voluto da Berlusconi nel 2008 per non cedere la nostra compagnia aerea ai francesi che avevano (allora) la disponibilità a pagare cifre consistenti per poterla acquisire. La cor­data dei “patrioti” ha bruciato le residue pos­sibilità di ripresa di Alitalia, colpita dalla cri­si recessiva e dalla (prevedibile) concorrenza dei treni ad alta velocità. Ma questa cordata era fatta da soggetti che avevano anche al­tri obiettivi, sicché è probabile che alcuni di loro ne siano usciti vantaggiosamente. È così che in pochi anni abbiamo assistito allo scomporsi dell’assetto di potere italiano che si era consolidato dall’inizio di questo millennio.

Un altro assetto si sta manifestan­do. L’Italia diviene più europea. Qualcuno lamenta la perdita di imprese italiane, ma dobbiamo anche sottolineare come in Euro­pa sia in corso un processo di riallocazione delle proprietà e delle imprese sotto la logica delle specializzazioni prevalenti. L’adozione dell’euro ha dato un’ulteriore spinta alla costruzione del mercato interno europeo e, come insegnano i testi di economia, in un mercato liberalizzato si determinano proces­si di specializzazione produttiva a favore del­le specifiche capacità sul territorio.

L’Italia è specializzata nell’industria tradizionale (non solo moda e arredamento, ma anche mecca­nica, componentistica) e in questi settori le nostre imprese, seppure a fatica, mantengo­no le loro posizioni e accrescono il loro mer­cato. Basti vedere Luxottica o Brembo. Inve­ce siamo deboli nella produzione e distribu­zione di servizi, sicché perdiamo quote nelle telecomunicazioni, nel trasporto aereo, nel­la finanza. Ovviamente ci sono anche vere e proprie eccezioni, come il caso delle Ferrovie che hanno rovesciato le proprie condizioni avviando un percorso di crescita, il settore delle autostrade e della ristorazione connes­sa, dove siamo fra i principali operatori mon­diali. Una nuova finanza sta subentrando a quel­la vecchia.

Con il ritirarsi delle banche, che devono lesinare il credito e uscire dalle par­tecipazioni, sono i fondi di private equity, sia privati sia pubblici (o vicini al settore pub­blico) che stanno giocando un nuovo ruolo nella definizione degli assetti proprietari e nella realizzazione di piani industriali anche di visione nazionale. A loro volta, le fonda­zioni bancarie stanno giocando un ruolo cre­scente nella definizione dei nuovi assetti, sia attraverso le loro partecipazioni, sia in com­binazione con Cassa depositi e prestiti che, seguendo le linee già tracciate dalle similari istituzioni in Francia e Germania, costituisce oggi uno snodo centrale nella definizione de­gli assetti proprietari di grandi imprese.

La nostra finanza resta comunque debole per la carenza di capitali e per la intrinse­ca vulnerabilità degli assetti esistenti. Basti pensare a Mediobanca che possiede di fatto il controllo delle Assicurazioni Generali. Un cambio dei pesi relativi nel patto di sinda­cato che controlla Mediobanca, dove si con­frontano capitali italiani e capitali francesi, potrebbe portare a un cambio di controllo non solo di Mediobanca, ma anche di Ge­nerali, senza necessità di impiegare ingenti capitali e senza rischi di dover ricorrere a un’Opa, così come sta avvenendo per Tele­com Italia. Il nuovo assetto di proprietà nel mercato italiano è ancora in corso e penso ci darà ancora sorprese.

 

Nuova finanza, nuovi patti?

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