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C’è un nervo scoperto del sistema pensionistico riformato dalla legge Dini-Treu del 1995 e dai successivi provvedimenti. La legge n.335, infatti, si prefisse di superare lo squilibrio determinato dal sistema retributivo che, in sostanza, a fronte anche dell’incremento dell’attesa di vita, tendeva a regalare ai pensionati (in particolare a quanti si avvalevano del trattamento di anzianità) un certo numero di anni di prestazioni  non coperti dal montante contributivo versato, garantendo loro la “rendita di posizione”.

Adottando il calcolo contributivo si è ristabilito un sinallagma tra contributi versati e prestazione, ma lo si è fatto soltanto a partire dai nuovi assunti dal 1996, mentre chi aveva, prima di quella data, almeno 18 anni di anzianità è rimasto interamente all’interno del meccanismo retributivo; gli altri sono inclusi nel sistema misto con il criterio del pro rata, fino a quando – dopo la riforma Fornero – il calcolo contributivo è stato esteso pro rata a tutti a partire dal 2012. Il principale difetto della legge n. 335 del 1995 consiste proprio nell’aver scaricato l’equilibrio del sistema sui futuri pensionati, salvaguardando, soprattutto sull’aspetto-chiave, dell’età pensionabile, il più possibile gli occupati più anziani.

Questa impostazione veniva giustificata con l’alibi della previdenza complementare. Il giovane – si diceva – andrà in pensione a suo tempo con un tasso di sostituzione più basso? No problem – si aggiungeva -. Perché potrà iscriversi ad un fondo pensione e colmare così il differenziale nel trattamento pensionistico. Salvo dover constatare, ad anni di distanza, che l’aliquota obbligatoria del 33% per i lavoratori dipendenti (anche quelle dei parasubordinati e degli autonomi sono in crescita) non consente di avere un’adeguata base economica per la previdenza complementare.

Così, le successive riforme hanno cercato, non a caso, di rendere più breve ed equa la transizione, anche per ottenere dal sistema pensionistico un apporto al risanamento di quei conti pubblici che in grande misura ha contribuito a destabilizzare. Il fatto è che il modello prefigurato dalla riforma Dini e dagli aggiustamenti successivi  è figlio di un progetto con la testa rivolta all’indietro, nel senso che non si pone l’obiettivo di come garantire ai lavoratori giovani di oggi – chiamati per i prossimi  decenni a versare un terzo del loro reddito per finanziare le pensioni in essere, poiché il sistema resta a ripartizione – un trattamento <adeguato> come previsto dall’articolo 38 della Costituzione; per di più, come fa notare Amato, in assenza di qualunque strumento operante in senso solidaristico.

Quale è infatti la preoccupazione dei giovani e per i giovani? Non tanto quella di vedersi applicare il calcolo contributivo. Se un giovane neoassunto ha la fortuna di lavorare a lungo e senza interruzioni andrà in pensione con un tasso di sostituzione socialmente sostenibile anche sottoponendosi interamente al calcolo contributivo. L’incerta prospettiva pensionistica dei giovani deriva dalla loro condizione occupazionale. Una carriera contraddistinta da un accesso tardivo al lavoro, da rapporti interrotti e discontinui (senza potersi giovare, inoltre, di un adeguato sistema di ammortizzatori sociali che cucia tra di loro i differenti periodi lavorativi, magari contraddistinti da rapporti regolati da regimi differenti) finirà per influire negativamente anche sulla pensione.

E’ evidente che occorre migliorare, nel senso di una maggiore uniformità, le tutele durante la vita lavorativa, ma nessuno può illudersi che si possa tornare ad una generalità di lavoro dipendente stabile, e quindi a poter salvare la pensione di domani  attraverso la salvaguardia  forzosa dei rapporti di lavoro standard, oggi.

Per poter cambiare questa situazione bloccata occorre mettere in sinergia le politiche a favore dell’occupazione dei giovani con un riordino del sistema pensionistico che abbia lo sguardo rivolto ad un modello che riesca a tutelare, al momento della quiescenza, il lavoro di oggi e di domani in tutte le sue peculiarità e differenze rispetto al passato.

I capisaldi di questa proposta sono i seguenti: 1) le nuove regole dovrebbero valere solo per i nuovi assunti e nuovi occupati (quindi per i giovani); 2) i versamenti sarebbero effettuati sulla base di un’aliquota uniforme – e fissata intorno al 24-25% –  per dipendenti, autonomi e parasubordinati  dando luogo ad una prestazione contributiva obbligatoria; 3) sarebbe istituito per questi lavoratori un trattamento di base, ragguagliato all’importo dell’assegno sociale e finanziato dalla fiscalità generale che faccia, a suo tempo, da zoccolo  per la pensione contributiva o svolga il ruolo di reddito minimo per chi non ha potuto assicurarsi un trattamento pensionistico; 4) per quanto riguarda il finanziamento della pensione complementare sarebbero consentiti l’opting out volontario (e il relativo versamento del corrispettivo in una forma di previdenza complementare) di alcuni punti di aliquota contributiva obbligatoria, nei termini e con le cautele ipotizzate dalla riforma Fornero.

La proposta andrebbe attentamente approfondita, nel suo insieme, soprattutto per quanto riguarda i costi, che sarebbero comunque inferiori a quelli teoricamente ipotizzati nei piani correnti. Essa realizzerebbe, stabilmente, una convenienza  ad effettuare nuove assunzioni  grazie alla previsione di un’aliquota contributiva per le imprese  più ridotta di ben 8-9 punti (e quindi grazie alla diminuzione del costo del lavoro), la cui unificazione al ribasso aiuterebbe a rendere “neutrale”, almeno dal punto di vista pensionistico, la tipologia scelta per il contratto di assunzione. La pensione di base compenserebbe, per i lavoratori, i minori accreditamenti secondo il modello contributivo. La riforma, nel suo complesso, riguarderebbe al massimo 3- 400mila unità all’anno (la nuova occupazione, sempre che riparta l’economia).  E, quindi, richiederebbe una copertura sostenibile. Sarà poi necessario pensare ad un meccanismo compensativo, in qualche modo retroattivo, per coloro che in questi anni sono rimasti prigionieri di un sistema che non li garantiva, come per esempio, gli iscritti in via esclusiva alla gestione separata presso l’Inps.

Giovani senza pensione? Ecco come riformare il sistema previdenziale

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