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“Adesso, dopo che mi hanno definito populista, demagogo, qualunquista, cavallo di Troia della destra, fascistoide, guastatore neo-liberista, arrivista rampante, eretico, per il gruppo dirigente del Pd sono diventato una risorsa. Termine che i vecchi volponi della politica affibbiano a alle persone da eliminare dopo averle emarginate, addomesticate, imbrigliate”. L’apertura del capitolo di “Oltre la rottamazione” intitolato “Si chiamerà Partito democratico” illumina la sfida ingaggiata da Matteo Renzi con la nomenclatura del Nazareno. Robusto soggetto ancorato alle radici novecentesche socialiste e cattolico-democratiche, radicato nel territorio e rigidamente strutturato? O contenitore-movimento leggero e aperto, costruito su una rete di pensatoi e imperniato sulle elezioni primarie per scegliere classe dirigente e candidati alle funzioni pubbliche?

Un Partito democratico tutto da costruire 

Renzi rivendica al Pd il valore unico dell’essere comunità che vive a prescindere dalle sorti del leader, ma ritiene vitale la presenza di una guida forte in grado di far vincere il collettivo. Al contrario di Pier Luigi Bersani che attribuiva una connotazione negativa all’espressione “Uomo solo al comando”, il sindaco del capoluogo toscano invita a riscoprirne “la bellezza emozionante”: “Evoca l’impresa di una persona di talento aiutata dalla sua squadra a stare in testa, che al momento opportuno trova lo slancio di staccare il gruppo e non farsi inghiottire nelle retrovie, di librarsi come un airone e vincere. Ecco il Pd che vorrei”. Un partito, spiega Renzi, non dilaniato dalle faide interne tra correnti, curioso e con le porte spalancate, che non chiede alle persone se vengono dai Ds, dalla Margherita o da altre storie ma dove vogliono andare. Capace di conquistare i delusi del centro-destra oltre a quelli di sinistra, “perché altrimenti finiamo per accettare i ministri del centro-destra”. Una forza “aperta innanzitutto nelle regole, in cui il responsabile organizzativo Nico Stumpo non obblighi Margherita Hack a portare la giustificazione per votare al ballottaggio delle primarie”. Rito rigenerante che per Renzi deve mettere in palio la scelta del segretario e del candidato premier coincidenti nella stessa figura.

Abrogare ogni finanziamento pubblico a partiti e giornali

Coerente con la sua visione “americana” di partito, Renzi reputa indispensabile abolire il finanziamento statale alle formazioni politiche, “protagoniste e organizzatrici della dialettica democratica, non enti pubblici come nelle realtà totalitarie”. Per questo motivo il primo cittadino del capoluogo toscano esorta a vigilare sui tentativi trasversali di allargare l’intervento diretto dello Stato a sostegno degli apparati. La previsione di contributi volontari e rintracciabili incoraggiati con il 5 per mille, rimarca Renzi, deve essere vincolata al carattere democratico degli statuti, della vita interna e della selezione dei candidati. E “visto che oggi grazie alla Rete chiunque può produrre a costo zero il suo bollettino o house organ, si possono eliminare le sovvenzioni pubbliche alla stampa di partito”.

La contraddizione su legge elettorale e forma di governo

La prospettiva in cui pensa e agisce Renzi è una democrazia politica competitiva e bipolare, imperniata sulla dialettica tra grandi formazioni a vocazione maggioritaria. Rispetto a cui l’attuale bipolarismo gli appare somigliante “al wrestling: tante mosse, molta scena, parole roboanti e giornate di insulti, ma nessuna lotta leale e accordo consociativo sui temi cruciali”. Tassello preliminare per ricostruire la democrazia dell’alternanza dopo la parentesi del governo di larghe intese è a suo giudizio l’eliminazione della legge elettorale in vigore, “che non si può correggere o emendare trasformandola in un Maialinum”. Nel suo ultimo libro egli non esita a invocare un meccanismo di voto “semplice, in cui i cittadini hanno consapevolezza di chi sono gli eletti e alla fine si sa chi ha vinto e chi ha perso, senza spazi per interpretazioni geo-politiche e accordi parlamentari”. Renzi richiama la sinistra alla necessità di rimuovere gli antichi tabù sui modelli presidenziali o semi-presidenziali. E non è un caso che parlamentari a lui vicini abbiano firmato la proposta di legge costituzionale ispirata all’investitura popolare del Capo dello Stato con responsabilità di governo sul modello francese, presentata il 18 marzo da un gruppo di deputati del Pd. Riferendosi allo psicodramma vissuto al Nazareno per l’elezione del Presidente della Repubblica, ha chiesto di “coinvolgere direttamente i cittadini visto che il sistema semi-presidenziale è un punto di riferimento di larga parte della sinistra mondiale”. E ha proposto di accompagnare la riforma istituzionale con un meccanismo di voto mutuato dall’elezione dei sindaci delle grandi città, maggioritario uninominale con ballottaggio. Tesi clamorosamente sconfessate a inizio giugno: “La riforma presidenziale e semi-presidenziale è un’inutile perdita di tempo, una discussione lontana dalla vita di tutti i giorni”. Nel suo programma per le primarie 2012, indica infine nell’adozione sul piano nazionale del modello di elezione dei primi cittadini la strada per “scegliere direttamente i parlamentari e un leader in grado di governare per l’intera legislatura”. Renzi oscilla tra l’adesione al modello d’Oltralpe e il sistema del “sindaco d’Italia”: investitura diretta del capo del governo appoggiato da una coalizione di forze elette con il proporzionale, con possibilità di un premio di maggioranza per l’alleanza vincente. Progetto analogo per filosofia alle leggi Acerbo del 1923, Gonella-Scelba del 1953, Calderoli del 2005. Che non ha nulla in comune con l’ipotesi francese o statunitense fondata sul pilastro di un’assemblea legislativa di parlamentari scelti in un’elezione diretta e distinta rispetto al vertice dell’esecutivo. Si verrebbe a configurare “un assetto ricco di squilibri a danno del Parlamento e della libertà degli eletti, visto che il premier forte dell’investitura popolare non bilanciata disporrebbe del potere di scioglimento delle Camere di cui è dominus”. Ma forse è il più congeniale alle aspirazioni di Renzi. Con il suo profilo e la sua giovane età è più facile essere eletto capo del governo che dello Stato.

Le altre innovazioni di sistema 

Più lineare il suo ragionamento sugli altri punti al centro della revisione costituzionale. A cominciare dal “superamento del bicameralismo paritario attraverso la creazione di una Camera politica composta da 500 deputati e di un Senato delle autonomie formato da presidenti delle Regioni e dai sindaci senza indennità aggiuntiva, in grado di proporre emendamenti alla legislazione statale su cui la Camera decide in ultima istanza a maggioranza qualificata”. Proseguendo con il limite di due mandati di dieci anni complessivi per gli incarichi di governo a ogni livello e con l’abrogazione delle Province. Fino all’abbandono “del federalismo retorico e fumoso a favore di una sussidiarietà ben distribuita tra centro e periferia”, e alla riforma del Patto di stabilità “per premiare i Comuni virtuosi che vogliono investire sul futuro”.

Renzi sogna un Pd nel segno di Fausto Coppi

“Adesso, dopo che mi hanno definito populista, demagogo, qualunquista, cavallo di Troia della destra, fascistoide, guastatore neo-liberista, arrivista rampante, eretico, per il gruppo dirigente del Pd sono diventato una risorsa. Termine che i vecchi volponi della politica affibbiano a alle persone da eliminare dopo averle emarginate, addomesticate, imbrigliate”. L’apertura del capitolo di “Oltre la rottamazione” intitolato “Si chiamerà Partito democratico”…

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