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Nella mia beata ignoranza mi bevo come un cavallo assetato le prediche pressoché quotidiane sulla potenza taumaturgica della competitività, l’ennesima parola magica che nel felpato mondo dell’economia e della politica viene declinata urbi et orbi quale unico rimedio per i mali del nostro tempo: dalla mancanza di lavoro che sta affamando varie generazioni, alla situazione sempre più traballante della finanza internazionale, minacciata dal paventato disimpegno delle banche centrali, e soprattutto della Fed.

Sempre perché non ne so abbastanza, di fronte alle continue esortazioni sul necessario aumento della competitività – ultima in ordine di tempo quella della Bis nel suo rapporto annuale – mi inchino, aspetto e spero. Aspetto che gli stati facciano il loro dovere. Spero che, miracolosamente, diventiamo tutti più competitivi. Aspetto e spero che di conseguenza riparta la crescita che finalmente farà diminuire i debiti fino a farli morire di morte naturale. Che, insomma, vengano ripagati.

Di solito faccio così.

Oggi no. Oggi mi sono detto che dovrei saperne di più, visto che c’è in ballo il futuro. Che almeno devo provare a capire esattamente cosa sia questa benedetta competitività, visto che ne parlano tutti.

Ho cominciato dalla definizione, servendomi del buon senso. Competitività deve essere quella qualità che permette di competere. Ossia di partecipare alla gara per qualcosa. Cosa? Elementare: la vendita di prodotti, mi son detto.

Ma poiché dubito costantemente di ciò che penso, mi sono messo a navigare e ho trovato una definizione più accettabile rilasciata dall’Ocse nel 1992: “La competitività è il grado con cui una nazione riesce, in condizioni di mercato libere ed eque, a produrre beni e servizi capaci di affrontare la concorrenza internazionale, allo stesso tempo mantenendo ed espandendo il reddito reale della propria popolazione nel lungo periodo”.

E’ stata un’illuminazione che ha fatto emerge dalla nebbia del tempo universitario un vecchio adagio di Adam Smith che dice sostanzialmente la stessa cosa: “Se un Paese estero può fornirci una merce più a buon mercato di quanto noi possiamo farlo, sarà meglio acquistarla da quel Paese con una parte del prodotto della nostra industria, impiegata in un modo nel
quale se ne tragga qualche vantaggio”. Insomma, compriamo con i profitti che facciamo grazie alla nostra economia nazionale quei beni prodotti da altre economie che non riusciamo a produrre noi più a buon mercato.

Il caro vecchio mercantilismo.

Quindi la competitività ha a che fare con gli scambi. Ergo, presuppone che qualcuno compri sempre quello che noi produciamo, sempre che io sia bravo a produrlo.

Ma come si fa ad aumentare la competitività?

Ho chiesto lumi all’enciclopedia Treccani che esibisce on line un notevole articolo leggendo il quale ho scoperto, fra le altre cose, che “la misura della produttività e il suo saggio di variazione sono determinanti per assicurare la competitività del soggetto, impresa o comunità nazionale, e conseguentemente il benessere di coloro che ne fanno parte”. Dal che ho dedotto che la competitività ha a che fare con la produttività.

Un’altra parolina magica che mi rimbalza sulle orecchie ogni giorno.

Ma cos’è la produttività?

I sacri testi dell’economia spiegano la produttività è il rapporto fra l’output (ossia il prodotto) e i l’input (ossia i fattori della produzione). Per farla semplice, si tratta di una frazione che ha al numeratore la quantità di beni ottenuta e al denominatore le risorse necessarie per ottenerla.

Mettiamo per ipotesi di avere una pizzeria. Se produco quattro pizze con due dipendenti, viene fuori che la mia produttività (in questo caso del lavoro) è di due pizze per dipendente.

Che significa aumentare la produttività? Stante la formulazione algebrica che ho detto, la produttività può aumentare solo se aumenta il numeratore (quindi ottengo più prodotto) a parità di denominatore o se diminuisce il denominatore (e quindi uso meno risorse produttive) a parità di numeratore. Nel primo caso significa che ho raggiunto una maggiore efficienza dei fattori produttivi. Nel secondo caso pure. La differenza è che nel primo caso magari ho ottenuto otto pizze anziché quattro, e quindi ogni pizzaiolo me ne ha fatte quattro. Nel secondo caso ho licenziato un pizzaiolo e quindi le mie quattro pizze me le fa il superstite.

Avrete notato una singolarità della produttività. Ossia la sua tendenza ad aumentare (o diminuire) a seconda di come si gestiscono i fattori della produzione. Nel nostro semplice esempio abbiamo parlato solo del lavoro, ma c’è anche il capitale.

Stando così le cose, è chiaro a tutti che l’obiettivo di ogni impresa dovrebbe essere quello di ottenere la massima resa con la minima spesa, come dice il proverbio.

Siccome mi sembrava semplicistico, ho continuato la mia ricerca e mi sono imbattuto in una definizione di produttività, riferita al lavoro, contenuta in una pagina della comunità europea che risale al giugno 2006, quando ancora il mondo era bello. Dice che “la produttività del lavoro corrisponde alla quantità di lavoro necessario per produrre un’unità di un bene specifico. Da un punto di vista macroeconomico, si misura la produttività del lavoro tramite il prodotto interno di un paese (PIL) per persona attiva”.

Nota bene: la produttività macroeconomica si ottiene con un’altra frazione, ossia quella fra il Pil e il numero delle persone attive. Anche stavolta, se il denominatore diminuisce e il prodotto rimane costante, la produttività aumenta (e pazienza per i disoccupati); altrettanto se il Pil aumenta e rimane costante il numero degli occupati. Ovviamente, dice l’Ue, “La crescita della produttività dipende anche dalla qualità del capitale fisico, dal miglioramento delle competenze e della manodopera, dai progressi tecnologici e dalle nuove forme di organizzazione”.

In ogni caso il prezzo lo paga il lavoro.

Tutto chiaro allora: gli stati devono aumentare la produttività per migliorare la competitività e quindi vendere più beni e diventare più ricchi. Tutto ciò a spese dei fattori della produzione. Perché “la crescita della produttività è la fonte principale della crescita economica”.

Mi sono quasi convinto finché non ho terminato di leggere quello che scriveva la Ue nel 2006. Leggete anche voi: “l’Austria, la Grecia e l’Irlanda sono riuscite a far crescere la loro produttività in modo costante dal 1990 raggiungendo quella degli Stati Uniti. Questo riflette probabilmente la capacità di questi paesi, a seguito della loro adesione all’UE, di trarre profitto dal completamento del mercato interno”.

Letta oggi fa un po’ ridere. Ma preoccupa pure. Lasciamo da parte l’Austria, ma non pare proprio che questo clamoroso aumento della produttività abbia portato fortuna alla Grecia e all’Irlanda. Anzi, a quanto pare devono aumentarla ancora per “trarre profitto dal completamento del mercato interno”, intanto che fanno i conti con la disoccupazione fra le più alte dell’eurozona.

Mi sono persuaso che qualcosa non quadri quando mi sono andato a rivedere i grafici del rapporto annuale Bis. Uno in particolare che misura proprio questa benedetta competitività dal 2001 in poi. In particolare, la Bis usa l’indice armonizzato della Bce che misura la competitività e che funziona “al contrario”: più scende, più aumenta la competitività.

Fatto 100 il livello di tale indice nel 2005, viene fuori che solo in Germania l’indice è sceso costantemente fino a quotare 90 nel 2012. In Italia e Francia l’indice viaggia sopra 100, malgrado i cali registrati da inizio crisi, mentre la media di Grecia, Irlanda e Portogallo si colloca al livello della Germania, così come anche il dato della Spagna. Quindi questi quattro paesi sono quelli che hanno migliorato più di tutti la propria competitività, al prezzo però della deflazione salariale e della disoccupazione che abbiamo visto tutti.

E infatti la quadratura del cerchio arriva se leggiamo questi dati incrociandoli con quelli sulla produttività del lavoro. In Germania, fra il 2001 e il 2007, è cresciuta in corrispondenza dell’aumento della competitività e ha continuato a crescere, anche se di meno, anche fra il 2007 e il 2012, quando la competitività ha raggiunto il suo picco.

In Spagna, tanto per citare uno dei Pigs, la produttività è scesa sotto zero fra il 2001 e il 2012, in corrispondenza del calo di competitività,  ma è esplosa dal 2007 al 2012, in corrispondenza dell’aumento di competitività, che ormai è al livello della Germania. E la Spagna ha una disoccupazione di oltre il 20%.

Insomma: come dicono i sacri testi l’aumento di produttività rima con aumento di competitività. Il prezzo, però, lo pagano il mercato del lavoro e i salari, che vedono erodersi sempre più la loro quota sul reddito nazionale.

Perciò adesso quando leggo gli economisti dire, come il caro vecchio Adam Smith, che aumentare la competitività è l’unica garanzia per accrescere la ricchezza nazionale, mi viene in mente un altro detto: timeo danaos et dona ferentes, come disse Laocoonte quando vide il cavallo di Troia. Temo i greci anche quando portano doni.

In questo caso i danai sono gli economisti, che promettono il dono di una crescita della ricchezza, e hanno depositato sulle nostre spiagge un suggestivo cavallo di Troia.

Là dentro, nascosto dietro le suggestioni della competitività, c’è un robusto calo dei salari.

Quando la notte della crisi tornerà a farsi scura ci soprenderà mentre dormiamo.

Il crollo dei salari nel cavallo di Troia della competitività

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