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Pubblichiamo un articolo del dossier “Berlusconi a Strasburgo, Siria, Al-Jazeera in America” di Affari Internazionali.

Fra Washington e Parigi è salita la pressione per un intervento militare in Siria, motivato dal probabile uso di armi chimiche da parte del regime di Assad. L’utilizzo di armi di questo tipo era già stato denunciato ad aprile e maggio da alcuni reporter francesi del quotidiano “Le Monde” che durante il loro lavoro in Siria avevano prelevato campioni di terreno analizzati poi in Francia.

Tale episodio aveva suscitato forti proteste, ma nessuna azione vera e propria. Oggi, invece, l’atteggiamento sembra diametralmente opposto. Dopo mesi di tentennamenti, sia il Segretario di stato statunitense John Kerry che il Presidente francese François Hollande sembrano esprimere la loro determinazione ad agire.

Groviglio di interessi
Va comunque sottolineato che il partito interventista esiste dall’inizio della guerra civile siriana e la violenta repressione adoperata dal regime contro i manifestanti ha radicalizzato le proteste, una situazione spesso interpretata in modo parallelo alla situazione in Libia. Inoltre, l’anno scorso la Francia si è incaricata di annientare i movimenti “terroristi” che minacciavano l’unità del Mali.

La Siria, però, rappresenta un universo a sé. Il paese è il banco di prova di una strategia regionale di opposizione fra sciiti e sunniti, con il sostengo dell’Iran e del movimento sciita di Hezbollah. Al contempo si assiste a una radicalizzazione di alcune brigate ribelli sunnite che flirtano con il qaedismo.

In aggiunta, si teme per le minoranze cristiane o curde, a volte alleate del regime o per lo meno nemiche delle milizie arabe ribelli. La Siria rappresenta l’ultimo alleato militare nel Mediterraneo della Russia, che non intende mollare questo vantaggio geo-strategico e guarda con sospetto la creazione di una nuova zona di terrorismo sunnita alle porte del Caucaso.

Per di più, si temono gli effetti collaterali contro l’alleato israeliano che rimane per il momento estraneo al conflitto, ma potrebbe essere soggetto ad attacchi di rappresaglia. Infine, ci si preoccupa per i contingenti dispiegati nel sud del Libano (la Francia e l’Italia hanno circa mille uomini ciascuno) alla mercé delle rappresaglie di Hezbollah.

Un groviglio di interessi nel quale è particolarmente difficile districarsi spiega l’atteggiamento attendista degli attori coinvolti. Dato il rischio di innescare conseguenze imprevedibili, si è scelto di adottare una posizione realista, chiudendo gli occhi sulle atrocità e massacri.

Terzetto a posizioni invertite
Oggi però assistiamo ad un risveglio dei paesi militarmente leader dell’occidente, Stati Uniti in primis, ma anche Francia. La posizione de Regno Unito appare più defilata. Fino ad agosto il primo ministro David Cameron si dichiarava pronto ad intervenire, ma si è dovuto fermare di fronte a un voto contrario del parlamento.

Ritroviamo il trio che aveva sostenuto l’intervento in Libia del 2011, sebbene in ordine differente, e possiamo anche evocare il precedente della missione francese in Mali con il decisivo sostegno statunitense.

È paradossale constatare come nel 2013 si ripercorre la storia dell’alleanza franco-americana della guerra di indipendenza statunitense, ma all’epoca il nemico era inglese. Questi due paesi hanno tradizioni interventiste diverse.

Spesso i francesi sono stati considerati come “alleati riluttanti” da parte di Washington, ma oggi esiste una congiunzione di interessi. Gli Stati Uniti non vogliono perdere la loro leadership mondiale e non possono accettare che le “linee rosse” tracciate dall’amministrazione Obama vengano continuamente ignorate e calpestate.

Anche se si discute molto del nuovo orientamento americano verso il Pacifico, il Medio Oriente rimane una zona nella quale Washington vuol dimostrare di contare, anche per rassicurare gli alleati mediorientali e israeliani sulle capacità difensive.

D’altra parte Francia e Regno Unito spiccano negli affari militari europei. I due paesi hanno sistemi politici che permettono l’adozione di rapide decisioni sull’ingaggio delle loro forze armate, incluse le missioni più propriamente “combat”. Tendono a considerare l’uso della forza come parte integrante della loro politica, cercando di massimizzare il proprio peso sullo scacchiere internazionale e differenziandosi dagli altri paesi europei, Germania in testa.

Inoltre entrambi i paesi hanno constituenciesinterne che spingono per un interventismo in nome della protezione dei diritti umani e delle popolazioni. A Parigi, il vecchio filone dell’interventismo rivoluzionario viene reinterpretato da coloro che considerano la Francia paladina nella protezione dei diritti, una tendenza tutt’ora ben presente all’interno della sinistra al potere e che è stata recentemente espressa nelle colonne del quotidiano “Le Monde”.

Il segretario dei socialisti francesi ha anche criticato l’opposizione per la sua cautela sul caso siriano, riferendosi alla conferenza di Monaco del 38. In Inghilterra il “new labour” esprimeva concetti assai simili. Inoltre, sia Londra che Parigi intrattengono rapporti intensi con l’Arabia Saudita e il Qatar, i due paesi del Golfo al vertice dell’opposizione contro Assad.

Riservatezza italo-tedesca
Molto più riservato e neutro il profilo tedesco, caratteristica comune nei confronti delle operazioni militari, ma ulteriormente condizionata dall’importante scadenza elettorale interna. La posizione italiana espressa dal Ministro degli esteri è quella di subordinare la partecipazione ad un mandato dell’Onu, una condizione che non sembra attualmente raggiungibile.

Dietro i vari orientamenti, si può osservare la preoccupazione degli eventuali contraccolpi, ma anche la difesa di un interesse nazionale specifico, il quale guadagnerebbe terreno e consenso se distante e autonomo dalle azioni statunitensi o francesi.

A Roma, l’attuale maggioranza, fragile e composita, non sembra in grado di sostenere una coalizione dei volenterosi come ai tempi dell’Iraq, quando si seguivano gli Stati Uniti senza se e senza ma. Né potrebbe affrontare il relativo iter parlamentare in un clima già logorato dalle discussioni sui programmi militari.

Molti commenteranno ancora una volta sulla mancanza di una posizione europea unanime. Bisogna superare una tale superficialità nei giudizi negativi, spesso ridondanti. L’Europa non fa sentire la sua voce attraverso dichiarazioni di politica militare, ma le azioni europee per i profughi e gli aiuti umanitari sono numerose e concrete.

Inoltre, in una situazione così complessa come il conflitto siriano, una variegata disponibilità di orientamenti politici potrebbe tornare utile per tenere aperti i canali diplomatici con ciascuno degli interlocutori così da facilitare la pacificazione nel prossimo futuro. Purché si capiscano e si rispettino le priorità interne, e si abbia l’intelligenza di fare gioco di squadra, anche interpretando ruoli diversi.

Jean-Pierre Darnis è professore associato all’università di Nizza e responsabile di ricerca dell’Area sicurezza e difesa dello IAI.

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