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Il boom del petrolio e del gas americano proietta la sua ombra sui mercati mondiali e solleva questioni geopolitiche inedite. Il gas è diventato nel 2011 la principale fonte di energia domestica, mentre la produzione di oro nero ha conosciuto nel 2012 il maggiore incremento annuo da 150 anni a questa parte.

Il mito dell’indipendenza energetica
In un lungo saggio pubblicato su Foreign Affairs, Michael Levi, analista energetico del Council on Foreign Relations, pone un freno a chi ritiene che l’indipendenza dai mercati esteri (se mai verrà effettivamente conseguita) consentirà agli Stati Uniti di prescindere dal mercato petrolifero mondiale, che continuerà ad influenzare, attraverso il prezzo unico del greggio, anche i consumatori americani. Grazie allo sviluppo intensivo delle energie rinnovabili, gli Stati Uniti però possono puntare ad un obiettivo altrettanto ambizioso, ovvero ridurre le emissioni di CO2 e ritornare al centro della sfida globale al cambiamento climatico. Considerati alcuni passaggi a vuoto della diplomazia climatica americana, non sarà un’impresa da poco.

L’età dell’abbondanza in America
Un’idea, proposta da Levi, è quella dell’approccio “most of the above”: accettare, promuovere e sviluppare tutte le principali fonti energetiche (escluso l’ormai antieconomico carbone) senza priorità settoriali, ma individuando gli strumenti più adatti (cap and trade, carbon tax, aumento delle accise sulla benzina, ecc). In pratica, non una distruttiva competizione tra settori per l’attenzione politica, ma una competizione tra legislatori per il migliore mix di politiche. Il tutto nel segno di una flessibilità e pragmatismo che premiano gli investimenti privati e con una regolazione che individui il punto di equilibrio tra le esigenze dell’economia e le preoccupazioni del pubblico.

La malattia energetica europea
Per un continente che deve ancora lanciare appieno la sfida climatica, ce n’è un altro che soffre sotto il peso di uno sforzo finora poco premiante. L’Europa, secondo l’agenzia ambientale danese, produce solo l’11% delle emissioni di CO2, contro il 29% della Cina e il 16% degli Stati Uniti. Il capo della norvegese Statoil ritiene che la confusione delle politiche Ue su rinnovabili, cambiamento climatico e sicurezza geopolitico-energetica sia alla base dello strano fenomeno per cui in Europa aumenta il consumo di carbone ai danni di quello del gas, molto meno inquinante.

Il dilemma per l’industria
In Europa i prezzi dell’energia sono aumentati del 27% tra il 2005 e l’inizio del 2012. Ed entro il 2035 la dipendenza da petrolio e gas importati supererà l’80%. In queste cifre c’è il dilemma dell’industria del Vecchio continente, che secondo le intenzioni della Commissione dovrebbe crescere per arrivare al 20% del Pil nel 2020 (oggi è al 15,6%). Una sfida non facile. Personaggi come Levi segnalano una ricucitura bipartisan tra “partito delle fossili pulite” e “partito delle rinnovabili” che in occidente trova vari ostacoli e rigidità, economiche e ideologiche, non facilmente superabili. Con la differenza che per gli Usa è in gioco solo (si fa per dire) il posizionamento internazionale, per la Ue la stessa sopravvivenza economica.

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