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La data è stata fissata quindi: già dalla fine di quest’anno e di sicuro nel corso del 2014 la Fed cambierà la sua politica monetaria. E adesso il mondo, dopo lo tsunami di liquidità provocato dalla Fed, dovrà fare i conti con la risacca.

Che la fine del denaro a tassi negativi fosse vicina era chiaro da tempo, ma una cosa è sospettarlo, l’altra è ascoltare le parole del guru della Fed Bernanke che ha lasciato capire senza possibilità di fraintendimento che la bonanza sta per terminare.

Quello che è succederà è chiaro, anche perché è già successo altre volte. Ci aspettano turbolenze peggiori di quelle che abbiamo già vissuto, con la consapevolezza che a pagarne il prezzo saranno innanzitutto le economie più deboli, ossia quelle che beneficiano dei flussi di capitali a basso costo quando ci sono e poi soffrono della penuria quando questi vengono ritirati.

D’altronde, gli allarmi non sono mancati in queste ultime settimane. Ma è prassi comune continuare a ballare il ballo della finanza finché è possibile. Salvo poi tirare rapidamento i remi in barca quando il vento cambia. E infatti i listini volgono già al ribasso, ed è prevedibile un ritorno di fiamma sui mercati obbligazionari. Anche perché l’appetito per il rischio, che negli ultimi mesi è tornato a solleticare i palati degli investitori, ci mette poco a diventare allergia. E quando la propensione al rischio cala, i capitali ci mettono poco a fuggire via dai paesi “pericolosi”. Compreso il nostro.

 Che la data sia stata fissata è scritto nelle proiezioni delle Fed rilasciate dopo l’ultima riunione del comitato ristretto dei banchieri centrali americani. I dati ci dicono che l’inflazione è prevista rimanga contenuta fino al 2015, sempre sotto il 2%, e che la disoccupazione dovrebbe collocarsi fra il 6,5 e il 6,8% nel 2014 per arrivare fra il 5,8 e il 6,2% nel 2015. Il doppio target assegnato alla Fed, inflazione bassa e disoccupazione al 6,5%, è stato quindi praticamente centrato.

Inizia l’exit strategy.

Delle conseguenze abbiamo detto, però per capirle meglio è utile servisi di un recente paper della Banca centrale europea intitolato “On the international spillovers of Us quantitative easing”, che analizza gli effetti globali dei vari allentamenti monetari decisi dalla Fed dal 2009 in poi. Quindi se leggiamo à rebours il paper possiamo farci un’idea più chiara di quello che succederà.

Il paper divide le manovre di QE in due momenti, la prima, chiamata QE1, seguita al collasso di Lehman Brothers, varata nel settembre del 2008, e la seconda, iniziata nella seconda metà del 2010.

Le conseguenza delle due manove sono state assai diverse. Il QE1, maturato in un contesto di avversione al rischio, ha avuto l’effetto di attirare capitali negli Stati Uniti, contribuendo all’innalzamento dei corsi obbligazionari e azionari negli Stati Uniti e all’apprezzamento del dollaro. Il che ha creato non pochi problemi di deflussi ai paesi deboli, che hanno visto aumentare esponenzialmente il costo del capitale. Quella che in Europa abbiamo chiamato la crisi degli spread.

Il QE2 ha funzionato al contrario. Complice il calo dell’avversione al rischio il diluvio di liquidità messo a disposizione dalla Fed ha finito con l’innalzare i corsi azionari del resto del mondo e ha condotto al calo del dollaro. Il QE2 ha funzionato in maniera pro-ciclica nei confronti dei paesi emergenti, che hanno visto aumentare esponenzialmente gli arrivi di flussi di capitali nelle loro economie, con le note conseguenze sulle loro bilance dei pagamenti e sulle loro valute. Senza che peraltro potessero farci nulla. La Bce, infatti, riconosce che le misure messe in atto da alcuni di questi paesi per “difendersi” da quest’onda montante di capitali (tipo controlli sui movimenti di capitale) sono state inefficaci.

Di fronte al diluvio americano, non c’è ombrello che tenga.

E sono proprio i paesi emergenti quelli che oggi rischiano di più. “I primi risultati – scrive la Bce – possono essere interpretati come un sostegno alle preoccupazioni espresse dai policy makers degli EME”. Questi ultimi, infatti, hanno pagato due volte il prezzo delle politiche americane. Prima hanno sofferto “deflussi di capitali quando il capitale era scarso”. Poi hanno subito la salita ”dei prezzi delle attività e dei tassi di cambio”, quando il capitale è diventato abbondante.

Vale la pena sottolineare che nella lista degli EME compilata dalla Bce ci stanno paesi come l’Argentina, il Brasile, la Cina, l’India, la Russia. La favola dei Brics, insomma, rischia di non avere un lieto fine. E i segnali già si vedono. Basta ricordare il rallentamento economico di questi paesi, già finito sull’altare delle statistiche.

In conclusione, la Bce rileva come “i risultati empirici mostrano che parte degli effetti delle politiche di QE sono collegate al rischio”. Nel senso che la propensione al rischio gioca un ruolo determiante sui flussi di capitale. Quando è bassa tutti votano America. Quando sale (magari incoraggiata sempre dagli Usa) tutti votano i paesi emergenti (noi compresi). Quindi tocca alle politiche dei singoli paesi, suggerisce la Bce, “aiutare a isolare i paesi dagli effetti delle politiche monetarie americane”. Che, in un contesto di totale liberalizzazione dei capitali, suona come una petizione di principio alquanto beffarda. E altrettanto suona l’appello per un “maggior coordinamento globale per gestire “ricadute politiche ed esternalità” di tali politiche.

Insomma, l’exit strategy della Fed ci pone di nuovo di fronte al dilemma fra squilibrio e depressione. E, ancora un volta, il boccino è nelle mani degli americani, che si confermano essere i veri arbitri delle sorti globali dell’economia. Adesso che hanno messo ordine in casa propria, al prezzo e con i metodi che abbiamo visto, possono pure permettersi di lasciare ai loro guai mezzo mondo, che certo non potrà contare sulla pallida imitazione giapponese dei metodi americani per tenere a galla il barcone sfondato della finanza mentre la risacca attira pericolosamente verso la riva.

Mentre sui viali dei paesi emergenti sorge il tramonto, dovremmo ricordarci che la risacca non colpirà soltanto loro.

Siamo tutti sulla stessa barca.

Fed, dopo lo tsunami arriva la risacca

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