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Una legge statunitense del 2009, dispone che ogni anno il Segretario alla Difesa presenti al Congresso un rapporto sui progressi militari di Pechino e sulle connesse strategie cinesi.

Il documento, prodotto sia in una versione pubblica che in una versione riservata, viene generalmente elaborato nel primo quadrimestre dell’anno ed ha (o dovrebbe avere) un approccio prospettico, individuando le tendenze strategiche del sistema militare e di sicurezza cinese per i successivi 20 anni.

E’ di pochissimi giorni fa la pubblicazione del rapporto 2013 e, come spesso avviene quando si tratta della Cina, la stampa internazionale (ma anche quella italiana) ha focalizzato la propria attenzione o sulle valutazioni riguardanti le attività di spionaggio cibernetico condotte da Pechino o sugli aspetti tecnologici dei programmi militari cinesi, trascurando quelli che sono, a parere del Pentagono, gli elementi strategici del sistema militare della potenza asiatica.

Mettendo, quindi, per un attimo da parte gli aspetti tecnico-operativi vediamo, molto sinteticamente, qual è l’analisi del Ministero della Difesa statunitense sugli obiettivi, le priorità e le percezioni dell’apparato politico-militare di Pechino.

Secondo il Pentagono, innanzitutto, la leadership cinese vede i primi due decenni del ventunesimo secolo come una “finestra di opportunità” per rafforzare il potere nazionale. Un orizzonte temporale di venti anni entro i quali elevare il più possibile il livello di forza economica, militare e politico-diplomatica del Paese collocandolo stabilmente tra le grandi potenze internazionali.

In base alle valutazioni del Ministero della Difesa statunitense, infatti, la leadership cinese ritiene che nel medio-lungo termine, oltre i 20 anni, l’interazione di una serie di fattori (demografia, nazionalismo, ambiente, contesto geopolitico regionale, ecc.) potrebbe contribuire a rallentare la crescita economica, a minare la coesione e la stabilità interna e, di conseguenza, ad indebolire l’azione del governo di Pechino sulla scena internazionale. Logica conseguenza è cercare di assicurarsi una posizione di forza e di prestigio fino a quando le condizioni sono favorevoli.

I leader cinesi – si legge nel rapporto appena pubblicato – più volte hanno indicato chiaramente una serie di obiettivi strategici da raggiungere entro il 2020. Tra questi, soprattutto: a) ristrutturare l’economia nazionale in modo tale da mantenere un adeguato livello di crescita incrementando il benessere e garantendo stabilità interna; b) modernizzare l’apparato militare al fine di acquisire “status” nel sistema internazionale, sostenere con successo eventuali conflitti regionali, difendere l’integrità territoriale e proteggere le preziosissime vie di comunicazione marittime (le cosiddette SLOCs, Sea Lines of Communication), vere e proprie arterie attraverso le quali la Cina si approvvigiona delle indispensabili risorse energetiche. La sicurezza energetica, d’altronde, costituisce uno degli aspetti più sensibili per la leadership di Pechino. La Cina, infatti, è fortemente dipendente dall’estero per i rifornimenti energetici ed in prospettiva lo sarà ancora di più nei prossimi 10/15 anni.

In percentuale, nel 2011 Pechino ha importato circa il 58% del proprio fabbisogno petrolifero e si stima che entro il 2030 la quota di greggio importato arriverà al 75%. Tenendo conto del fatto che la maggior parte del greggio e del gas arriva in Cina tramite SLOCs è facile capire perché la leadership di Pechino consideri vitale la modernizzazione della propria marina militare: non solo per limitare o negare (denial) la libertà di movimento alle forze navali ostili (sostanzialmente la U.S. Navy) ma anche per proteggere le linee di comunicazione marittime, attualmente troppo vulnerabili alle operazioni di interdizione aero-navale statunitense.

Nel complesso, il quadro che emerge dall’analisi del Pentagono è quello di una leadership con ambizioni da grande potenza (regionale o addirittura globale) che punta ad essere riconosciuta come tale ma che, nel trarre vantaggio da una “finestra di opportunità” di non più di vent’anni, deve muoversi con estrema cautela affinché la propria ascesa politica economica e militare sia considerata pacifica e benigna e non pericolosamente “egemonica”. Ciò provocherebbe, infatti, una naturale reazione di difesa da parte degli attori regionali che, percependosi minacciati da Pechino, si adopererebbero per contro-bilanciarla facendo fronte comune.

Si tratta, in definitiva, di riuscire a crescere mantenendo stabilità e coesione interna (evitando, ad esempio, che la leva del nazionalismo sfugga di mano) e senza allarmare troppo i vicini o quella che, almeno per il momento, è l’unica Superpotenza globale: gli Stati Uniti d’America.
Bisogna ammetterlo: un compito non dei più semplici.

Claudio Neri  è direttore del Dipartimento di Ricerca dell’Istituto Italiano di Studi Strategici “Niccolò Machiavelli”

Il difficile percorso strategico di Pechino

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