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La linea del governo è quella del dialogo. Sul salario minimo – tema cruciale e identitario per il centrosinistra – il premier Giorgia Meloni prova ad aprire un canale con le forze più dialoganti della coalizione avversa. Le sensibilità sulla questione sono molto diverse, anche nel mondo del lavoro. Tanto che, differentemente rispetto ad altre battaglie, anche i sindacati confederali sono spaccati. Sì, perché se per Cgil e Uil l’obiettivo deve essere quello dell’approvazione del salario minimo per legge – con soglia fissata a nove euro – la Cisl, attraverso il segretario generale Luigi Sbarra, si sta battendo piuttosto per un ulteriore allargamento della contrattazione nazionale collettiva. “Ma in tutto il dibattito sull’approvazione del salario minimo, è mancato un elemento importantissimo: i consumi, in particolare riferiti al mercato interno”. L’appunto arriva dal direttore generale del Censis, Massimiliano Valerii con cui Formiche.net ha fatto una panoramica sulle questioni più cogenti dell’agenda politica in tema di lavoro, salari e fisco.

La domanda interna c’è soltanto se la retribuzione dei lavoratori è adeguata. Il salario minimo ha l’ambizione di muoversi in questa direzione oppure è diventata una battaglia politica per contrastare questo governo?

Le mie sono valutazioni tecniche. Non c’è dubbio che ci sia una correlazione diretta fra il livello salariale e il consumo interno. Ed è questo, a ben guardare, il vero nodo critico di tutta la questione, benché sia stato sostanzialmente ignorato dagli interventi che sono stati fatti. Tra il 1990 e il 2020 l’Italia ha assistito a una contrazione, in termini reali, di quasi tre punti percentuali relativamente alle retribuzioni medie lorde annue. Al contrario, in Francia e in Germania si è registrato un incremento del 30% e, nel Regno Unito, del 40%. Si badi, questo raffronto avviene a parità di valore d’acquisto. Quindi è evidente che il nostro Paese sconti un problema retributivo enorme.

Ed è realistico immaginare che con il salario minimo si possa superare?

In 21 dei 27 Paesi dell’Ocse, esiste il salario minimo. Per cui non si tratta, come sostiene qualcuno, di una misura illiberale. E non si tratterebbe neanche di un provvedimento che andrebbe a favorire il lavoro nero o illegale: recenti studi americani ed europei dimostrano l’esatto opposto. Aggiungo un altro elemento. La compressione dei salari ha fatto sì che, in questi anni, il nostro Paese abbia perso moltissimo in termini di capitale umano qualificato, ma anche in termini di manodopera. Questo ha portato a un recupero della competitività. Ma non basta il salario minimo. Serve una risposta anche sul fronte imprenditoriale.

A cosa fa riferimento nello specifico?

Non si può immaginare di approvare una legge che preveda l’istituzione del salario minimo, senza prevedere parallelamente un intervento significativo per tagliare il cuneo fiscale. Pensare che le imprese si facciano carico, da sole, degli oneri di un’operazione di questa portata è totalmente folle.

E sulla cifra dei nove euro che sembra farsi sempre più largo?

La cifra va ponderata molto bene, anche considerando il contesto italiano. E sono anche d’accordo sul fatto che la retribuzione sia ancorata alla produttività delle azienda. Ma va tenuto presente un dato. In questi trent’anni nei quali i salari sono stati compressi, la nostra produttività è aumentata del 21,9% in termini di valore aggiunto per ora lavorata. A mio modo di vedere, non è banale.

L’ipotesi avanzata dalla Cisl di lavorare per allargare la contrattazione nazionale collettiva, piuttosto che di istituire il salario minimo, come la vede?

L’allargamento della copertura dei contratti nazionali di lavoro non è confliggente rispetto all’istituzione di un salario minimo per legge. Anzi, sono in qualche modo due misure che si potrebbero anche compenetrare, dal momento che il salario minimo è un obiettivo di base. Anche le pensioni minime sono stabilite per legge. In questo senso varrebbe lo stesso principio.

L’iter di approvazione della delega fiscale è entrato nel vivo. Che idea si è fatto della svolta che vuole imprimere il governo? Dalla revisione degli scaglioni Irpef alle misure ad hoc per liberi professionisti e autonomi?

La revisione degli scaglioni Irpef, immaginata per tutelare i redditi e il potere d’acquisto del ceto medio non può che essere un provvedimento positivo. Allo stesso modo è positiva questa attenzione che l’esecutivo sta riservando ad autonomi e imprese. Peraltro questo è il momento giusto per portare avanti una riforma di questo tipo. La congiuntura è estremamente favorevole e, una riforma fiscale che introduca questi elementi assieme al necessario – vitale – abbassamento del cuneo fiscale, potrà contribuire in maniera significativa a consolidare la crescita del Paese. Una crescita testimoniata anche da un tasso di occupazione record: 383 mila occupati in più (dati del maggio scorso). La strada è giusta, ma bisogna far ripartire il consumo interno (che segna un piccolo guizzo nell’ultimo anno): non possiamo vivere solo di export.

Salario minimo, ma col taglio al cuneo. E sul fisco... Parla Valerii (Censis)

Sono tante le ragioni per orientarsi verso l’approvazione della legge per istituire il salario minimo. Tuttavia, non si può prescindere dal contestuale taglio al cuneo fiscale. Le imprese non possono sopportare, da sole, ulteriori oneri. E la delega sul fisco? Può contribuire alla crescita. Conversazione con Massimiliano Valerii, direttore generale del Censis

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